"Questo libro non è tanto un trattato sull’etica quanto piuttosto un invito a descrivere la vita, sollecitando ciascuno a guardarsi intorno e rendersi conto dei dettagli che la compongono... si tratta comunque di una proposta di attiva partecipazione in un momento storico in cui ci sentiamo sempre più strumentalizzati e sempre meno protagonisti, al pari dell’ambiente e delle sue risorse..." (dalla prefazione)
martedì 5 aprile 2011
Un bene fragile. Il nuovo libro di Antonietta Potente
"Questo libro non è tanto un trattato sull’etica quanto piuttosto un invito a descrivere la vita, sollecitando ciascuno a guardarsi intorno e rendersi conto dei dettagli che la compongono... si tratta comunque di una proposta di attiva partecipazione in un momento storico in cui ci sentiamo sempre più strumentalizzati e sempre meno protagonisti, al pari dell’ambiente e delle sue risorse..." (dalla prefazione)
sabato 5 dicembre 2009
Lo spirito contro il razzismo
Oggi è finito il tempo dell’infanzia, cioè di illusorie attese di salvezza. Oggi l’essere umano può essere creativo dal di dentro. So che nel mondo ci sono rigurgiti nostalgici che cercano di resuscitare fantasmi ideologici; per fortuna essi appaiono già vecchissimi e privi di ogni autorità, come avviene con i fantasmi dei film dell’orrore postmoderni, che debbono attrarre l’attenzione col sangue e con il sesso, ma non hanno più il fascino quasi mitologico che avevano quelli antichi in bianco e nero.
Tra i vari rigurgiti ce ne sono di pericolosissimi, come il razzismo, ma credo anche che ciascuno di noi, nonostante i nostri sodalizi ideali, sia un po’ razzista, mentre agli stupidi di turno nell’ambito politico di qualsiasi colore, tocca solo organizzarlo e istituzionalizzarlo. Il razzismo non è solo di gente ricca o borghese, è a volte, improvvisamente di tutti (pensiamo a Hitler che non era né ricco né borghese). Il razzismo è la meschinità e l’ottusità del nostro spirito; è il moralismo; sono le nostre taccagne logiche sulla giustizia e sulla solidarietà; la frustata visione che abbiamo della proprietà, tra benessere raggiunto e obbiettivi mancanti.
Lo spirito e l’anima non sono razzisti, ma come recuperare lo spirito, come recuperare l’anima? Quante cose dobbiamo ancora capire e di quante cose dobbiamo ancora parlare: sono sempre più convinta che lo spirito sia anarchico, come dice Giovanni nel capitolo terzo del suo vangelo e noi dobbiamo ancora trovare le sue impronte, lasciate qui e là. Siamo troppo abituati ai dualismi, alle dicotomie, alle gerarchie per non essere razzisti. Il dialogo comunque deve restare aperto e guai a chi lo chiude.
domenica 17 maggio 2009
Vivere nel terzo millennio
Per vedere il video clicca qui.
domenica 15 marzo 2009
Restiamo svegli sul tempo storico che ci sospinge
di Antonietta Potente
Che è un oceano?
Il mare è solo un lungo sogno
che sta sognando la terra
tra altalene di soli…
È il sogno della terra addormentata su una fiamma…
E che cos’è un sogno ? Un sogno…vediamo…un sogno…
Lasciamo la lezione per domani…
(Dulce Marìa Loynaz. Poetessa Cubana)
Scelgo un avvenimento tra tanti, più o meno nitidi; uno di quelli che ha avuto ripercussioni internazionali: la vittoria del «Sì» e dunque l’approvazione della nuova Costituzione politica dello Stato boliviano. Uno Stato, come scandisce lo stesso testo: plurinazionale e multietnico.
Come ogni avvenimento sociopolitico, anche questo provoca echi differenti, sia a livello nazionale che internazionale, ma personalmente non voglio commentare questa nuova possibilità a cui siamo giunti come popolo, ma piuttosto raccolgo alcune domande che, come nel poema che introduce le mie riflessioni, sottendono costantemente la vita e, anche in questo caso, guai se smettessimo di formularle, anche se fosse solo, nel segreto introspettivo delle nostre storie. Che cos’è…un oceano…un mare…una terra addormentata…un sogno. Non a caso ho scelto una poetessa che fa parte della tradizione culturale cubana; non a caso raccolgo il suo eco lasciato nel tempo, ancora più in là del suo sogno o della sua stessa vita e di quella della sua isola.
Come sempre e, sempre più volutamente, le mie riflessioni resteranno sospese nel tempo presente e, come canta questo bellissimo poema…lasceranno la risposta per domani…, così come ogni sogno, davanti a una più o meno certa realizzazione, non cesserà mai di accompagnarci e inseguirci in ogni giorno che ha ancora da venire.
Gli echi storici.
So molto bene che, dovuto alla situazione politica europea e soprattutto italiana, ogni intuizione di cambio alternativo nel panorama politico mondiale, sembra rianimare il respiro di chi sogna ancora una politica diversa da quella che, da anni, si è consolidata nel potere economico e sociale del neoliberalismo postmoderno.
Per questo, capisco che ogni eco che arriva agli orecchi dei sensibili uditori assetati di nuove macro e micro strategie politiche, solleva gli animi e crea un alone di speranza, soprattutto in quelle persone o gruppi che hanno sempre accompagnato processi di autodeterminazione dei popoli in differenti continenti e con differenti soggetti. È dunque normale, che i successi sociali di popolazioni con maggioranza indigena, o la introduzione di nuovi attori politici nel panorama mondiale, come per esempio Obama, facciano pensare alla realizzazione di un sogno. È normale anche che, per lo meno gli ambiti di tradizione di sinistra, guardino con interesse il capillare movimento politico dei popoli latinoamericani, tra riflessioni metafisiche e prassi alternative di vita e di economia.
Ed è proprio dal panorama latinoamericano che, ormai da un po’ di anni, giungono, anche se in modo diverso, echi di cambio. Tutti guardiamo con simpatia e speranza alle quotidiane metamorfosi di paesi come Bolivia, Ecuador, Paraguay, Brasile, convocati e assistiti da un Venezuela sempre più «primo attore». Nonostante tutto ciò, anche queste nazioni coinvolte in processi politici che attirano l’attenzione e alimentano la speranza di molti, in realtà restano ancora avvolti in correnti che in qualche modo bloccano il cammino vincolandole tra vecchio e nuovo.
Forse è per questo che, chi sta da questa parte del mondo, chi ha percepito i primi movimenti strategici di moltitudini di persone nelle loro quotidiane rivendicazioni, tra sogni di dignità e benessere, tra ancestrali fedeltà e nuove strategie economiche e sociali, percepisce che il cammino è ancora lungo. Chi ha visto infatti da vicino e ha avvertito sulla propria pelle e su quella degli altri una sensazione di brivido, vedendo varie volte l’alternarsi di presidenti o interi governi, nel giro di pochi mesi, giorni, ore o secondi, è probabilmente soggetto a una visione più critica su quello che accade nel mondo e anche nel mondo latinoamericano e, certamente non si pacifica e non si accontenta di vedere riuniti i capi di stato di questi paesi emergenti, o ascoltare i loro discorsi, anche quando tra di loro tracciano un’unica trama e una sola strategia.
È proprio su questo punto che irrompono i versi della poetessa cubana e soprattutto l’ultima parte…il sogno…la risposta lasciata per domani… Così che, se pur persistendo e appoggiando i sogni segreti e i concreti processi di cambio e, continuando a contrapporsi energicamente e criticamente a coloro che invece vogliono sviare questi processi e indebolire ogni tentativo alternativo. Mantengo infatti una sottesa nostalgia per qualcosa che, per ora, abbiamo solo visto o… salutato da lontano, come dichiara il testo biblico neotestamentario della lettera agli Ebrei (Cfr. Eb 11).
Il fantasma del populismo.
Circondata dunque da questi processi ancora in atto, vivendo notti inquiete che alimentano pensieri, paure, ma anche ulteriori sogni, mi ritorna in mente un antico testo profetico, a mio avviso molto interessante in questa congiuntura latinoamericana. Mi riferisco ad alcuni versetti del libro profetico di Daniele; una sorta di lamentazione di cui, oggi, come allora, forse non abbiamo ancora compreso il vero significato e la sua potenzialità mistico-politica. nella crescita di un popolo e di una umanità in cerca del riconoscimento della propria maturità, come direbbe Bonhoeffer: un mondo maggiorenne. Ed è proprio stando da questa parte di mondo che oggi come oggi, ritorna questa immagine biblica come una sfida silenziosa e perenne lanciata ai nuovi attori politici o alla politica in generale, una politica che sembra cadere nelle stesse trame di sempre.
Il testo a cui faccio riferimento è quello di Daniele 3,38: …ora non c’è più tra di noi principe, profeta o caudillo, sacerdote e olocausto, sacrificio, oblazione né incenso né un luogo dove possiamo offrire le nostre primizie.
Questo testo, probabilmente raccolto da una lunga litania di dolore, e ricordato sempre in momenti considerati drammatici lungo il cammino di un popolo in ricerca di liberazione, in realtà, a mio parere, sottende qualcosa di molto più profondo e ispiratore. Forse potrebbe diventare una e vera e propria critica a una mentalità che in realtà soggiace dentro ogni visione politica e religiosa di tipo soteriologico (salvatrice).
Infatti, sembra quasi che in ogni processo di liberazione, di crescita e di corresponsabilità socioeconomica, non riusciamo a pensarci senza nessuno che ci guidi, che faccia le veci di noi stessi e delle nostre responsabilità. Sembra quasi che allora, come oggi, tutti cerchiamo comunque e sempre un rappresentante, un mediatore, un leader, qualcuno che guidi.
Mi riferisco a processi di cambio che, in un modo o nell’altro, ricadono in un certo caudillismo o populismo che in fin dei conti è un nuovo processo di dominazione di pochi su una immensità che nessuno può contare e che comunque è la unica e vera protagonista di evoluzioni e rivoluzioni storiche economiche e politiche da cui sono nati questi stessi principi, sacerdoti e caudillos .
L’arte della sopravvivenza alternativa dei popoli, resta un mistero che sottende, qualcosa che, per esempio, dal punto di vista teologico, leggeremmo come una e vera e propria opera alternativa di un sogno divino che come nella genesi dei tempi, sorvolava le acque e creava ancora più caos fino a partorire infinite e differenti esistenze. È comunque certo che quest’arte alternativa non è sinonimo di perfezione o assenza di ambiguità, ma solo teatro di sempre nuove possibili alternative e cambi. E probabilmente è su questo piano che si gioca la lamentazione del profeta. Pensare che il popolo abbia sempre bisogno di persone che facciano da mediatori e quindi da leader politici o religiosi. Da questa lamentazione sembra proprio che non riusciamo mai a stare senza distaccate o evidenti figure istituzionali che ci rappresentino. In questa prospettiva sembra che cadiamo tutti e destra e sinistra si assomigliano e coincidono, così come coincidono istituzioni religiose e politiche.
Mentre il mondo che si considera adulto e cerca bene o male di togliersi di dosso ogni dipendenza, dottrinale, ideologica, il sistema politico anche quello che si presenta come alternativo ai vecchi sistemi, non riesce a inventarsi e pensarsi in un altro modo.
Così che il lamento del profeta che nel quadro biblico si potrebbe anche capire, visto ciò che significavano quei ruoli nell’universo simbolico del popolo di Israele, oggi come oggi, lo potremmo rileggere in un altro modo. Una storia, infatti, che si continua a pensare rappresentata da capi, sacerdoti o profeti non è ancora una società veramente responsabile e creativa. Anzi questi processi assumono un aspetto molto ambiguo rivestendo i processi di liberazione di un tono profondamente populista e sappiamo che ogni populismo è comunque negativo.
Oggi, senza retrocedere o negare i parti storici latinoamericani, sentiamo che il momento che viviamo non è un nuovo ordine politico, ma un tentativo ancora molto lontano da quella che può essere una possibilità alternativa. In realtà anche qui, non abbiamo trovato ancora un altro modo di far politica. Eravamo fiduciosi in sapienze alternative, gestioni differenti della vita e visioni del cosmo diverse. Come donna, in realtà, questa critica e questa paura, la attribuisco a che il modello sociopolitico comune è comunque un modello che fa parte dell’immaginario collettivo maschile di cui, dopo secoli, non possiamo ancora liberarci. Ogni rivoluzione ed evoluzione ci sembra possibile solo se portata avanti da questi rappresentanti maschili. È sintomatico nella profezia di Daniele, come questa lamentazione gira intorno alla mancanza di leader maschili. Così oggi come oggi, la politica latinoamericana soffre ancora questo pericolo; sembra che l’essere umano abbia bisogno di recuperare i suoi eroi, indigeni o meticci, ma comunque leader che si sentono rappresentanti di una moltitudine, dentro processi che per ora assicurano la sopravvivenza ma non sono ancora una vera possibilità alternativa. Senza sottovalutare niente di questi processi in atto nel mondo, non guardiamo la realtà come se queste fossero vere e proprie visioni di liberazione, ma piuttosto, restiamo critici, sentendo che per ora abbiamo solo intravisto qualcosa e che questi sono processi di transizione che vanno accompagnati e che hanno bisogno non solo di sostegno o solidarietà economica e politica, ma di un acuto senso critico e una ascetica vigilanza per non abbandonare un sogno dove prima o poi davvero e per fortuna, non ci saranno più profeti, né principi, né sacerdoti… né luoghi privilegiati per ottenere mediazioni particolari.
So benissimo che queste opinioni sono discutibili e che probabilmente per quelle persone che leggono alcune riviste o alcune pagine web, possono risultare riflessioni pericolose visto che, dopo il forum mondiale tutti continuiamo a pensare che abbiamo già trovato spazi alternativi e che i popoli sono coscienti di questi processi di cambio e soprattutto di ciò che questi processi comportano. Ma la mia inquietudine continua, perché ciò che rende questi processi più deboli non sono solo le minacce esterne, le ambigue politiche internazionali e i giochi economici degli organismi finanziari o la piovra dei poteri di entità transnazionali con le loro mafie politiche affiancate anche da quelle religiose. Ciò che rende precari i nostri processi alternativi sono anche alcuni fattori interni, come per esempio un certo caudillismo politico, o modelli ora mai obsoleti nell’immaginario individuale dell’essere umano postmoderno e soprattutto delle fasce culturali di altre provenienze e in quelle fasce più giovani, ma che in realtà restano in vigenza nel quadro politico più comune. Forse ancora una volta la vittoria delle opposizioni a ogni cambio è proprio questa, far sì che per difendersi, anche questi attori politici che sembrano alternativi, tornino alle vecchie posizioni populiste, con sapore militare, con sapore a welfar state, qualcosa che assicura la mediocrità di ogni cittadino, qualcosa che comunque perpetua relazioni ambigue tra i generi, qualcosa che comunque serve per educare a una visione del mondo profondamente ristretta, fuori da ogni parto di dialogo storico, dove l’individuo senza le solite strutture sociali non è niente ed entra in preda di una depressione politica e sociale oltre che psicologica. Errori che si ripetono incessantemente, anche se gli uni accusano gli altri di averli propiziati, da un lato proprio in questi paesi dove comunque la maggioranza è sempre stata in balia di credi religiosi o politici con annunci assistenziali di liberazione che, in realtà, hanno fatto sì che la coscienza umana restasse legata al filo della dipendenza, e dell’infanzia spirituale e sociale, proprio perché chi assicurava la liberazione e la vita era comunque un intermediario, un mediatore e se rappresentante del sesso maschile, meglio.
Oggi, mentre i processi di autodeterminazione dei popoli si sono intensificati ciò che non si è intensificato è la struttura di questo processo che comunque segue sempre gli stessi parametri e dunque tiene, gli stessi rischi, cadendo in una prassi che più che assumere i colori di un processo di autonomia dell’essere umano, sembra restare costantemente ancorato a quello stato primordiale di bisogno che ha fatto dell’essere umano un essere religioso, ma decisamente non mistico o delle sue intuizioni sociopolitiche un eterno ritorno simile a quello dell’olimpo degli dei greci.
Come ci piacerebbe invece, pronunciare questa lamentazione al rovescio: …per fortuna oggi non abbiamo più principe, profeta, sacerdote… perché come si sognava in un altro testo biblico, per bocca del profeta Gioele, tutti hanno la possibilità di sognare: anziani e giovani, liberi e schiavi divenuti liberi… (Cfr. Gio 3,1-2).
Forse questa è una anarchica illusione, può darsi, ma è comunque una intuizione di chi continua a credere nei parti di sopravvivenza di donne e uomini comuni, nei percorsi della ricerca e dell’osare umano, nel desiderio di sfociare in altre dinamiche di resistenza e di vita, perché, come direbbe il filosofo Edgar Morin, la prosa ci fa solo sopravvivere mentre la poesia invece, ci fa vivere…
Purtroppo, ci sembra che la politica sia ancora legata alla prosa e che ogni cambio, in fin dei conti ci porta alla mediocrità di essere cittadini, indigeni o meticci, ma comunque mediocri cittadini assicurati dalla certezza che qualcuno penserà e veglierà su di noi e ci assicurerà la sopravvivenza.
Un’antica dialettica dunque, tra la mediocrità di una storia che mi assicura il sopravvivere e la creatività di un sogno che risveglia costantemente, come ispirazione poetica, per poter vivere e non solo sopravvivere.
Europa come sempre, soprattutto la sinistra, forse guarda con speranza a questi movimenti con sapore rivoluzionario dei popoli, forse anche per consolarsi o per tranquillizzare la propria coscienza dopo il fallimento di una politica nazionale ed estera decisamente mal gestita. E così, oggi come oggi a questo sogno si è aggiunto anche il mito di Obama con tutto ciò che questa persona rappresenta nell’identità individuale e collettiva della complessità nordamericana. Ma nella vita concreta di chi davvero ha lottato in lunghi e inquietanti dormiveglia e più volte, ha attraversando i sentieri del limite e della sopravvivenza, il mito non basta più. Così come non gli basta più il senso di un immaginario collettivo, perché vuole camminare ancora con le sue proprie gambe. È così che la sua creativa resistenza scompiglia le correnti sicure e statiche dei venti che nacquero come moti vorticosi incontenibili ma che la ufficialità li ha resi ripetitivi e piatti, come coltri pesanti sul cammino dei popoli. Riconosciamo dunque che noi esseri umani ci muoviamo ancora nell’ottusa visione di coloro che pensano che gli altri hanno sempre bisogno di qualcuno e così abbiamo costruito i nostri universi simbolici individuali e collettivi e atrofizziamo il sogno, per fortuna esiste una incoscienza totale, che sospinge i sogni e trasforma le notti in spazi di significative ricerche e di inquietanti attese.
Restiamo dunque attenti, attente, come testimoni di un sogno che si muove nell’esistenza di donne e uomini comuni che, probabilmente, senza conoscere tutta la storia ideologica dei partiti e delle correnti politiche, ha il bellissimo sentore di una «altra vita possibile», un’altra storia, un’altra logica, altri rapporti, altri scambi, altri progetti istituzionali, altre leggi e altri cammini culturali e sapienziali di questa sinergica storia eco-antropologica.
mercoledì 7 gennaio 2009
Intromettendomi nel dialogo tra Marcello Pera e Benedetto XVI
Non voglio e non posso ancora addentrarmi nei dettagli del contenuto del libro, ma voglio farlo riguardo alla lettera che accompagna il testo di Marcello Pera, resa pubblica il 23 di novembre, pochi giorni fa, e che probabilmente è, allo stesso tempo, cassa di risonanza e ispirazione, poiché non è la prima volta che i due autori fanno un concerto a quattro mani su temi socio-culturali e religiosi (Senza radici, Mondadori 2004). Per ora, dunque, è solo la lettera di Joseph Ratzinger che provoca in me alcuni sentimenti e alcuni pensieri. Raccolgo dunque alcuni frammenti, per poi lasciare libero l’eco interiore che hanno suscitato in me.
Il primo frammento è con riferimento alle radici del liberalismo che si alimentano – secondo Ratzinger - nell’immagine cristiana di Dio. Non voglio fare un riassunto su ciò che s’intende per “liberalismo” e soprattutto sulle sue multipli sfaccettature assunte lungo la storia, ma ritengo inconsueto sentire affermare, senza ombra di critica, che il liberalismo è la condizione ideale per una cultura veramente cristiana. Forse questo mi appare ancora più strano, sapendo che Benedetto XVI sta commentando il testo di Marcello Pera, uno degli esponenti di quelle correnti politiche che hanno scalpellato gli ideali liberali fino a renderli a immagine e somiglianza di quelli dell’economia neoliberale. Il liberalismo italiano, pronipote del liberalismo anglosassone nato alla fine del secolo XVII e rappresentato, in Inghilterra, da David Hume, Adam Smith, Edmund Burke ed altri.
Com’è possibile affrettarci per trovare sintonie tra cristianesimo e liberalismo e dubitare, invece, su possibili dialoghi con culture e religioni di altre geografie storiche ed esistenziali? Com’è possibile cercare complicità, senza ombra di dubbio e senza paura, tra il messaggio cristiano e quello del liberalismo europeo e avere, invece, tanti dubbi e tanta paura quando si tratta di leggere il parto storico d’intere società e culture di fronte alla complessità e alle sue nuove esigenze vitali?
Com’è possibile benedire e affiancarsi al sogno di chi pensa a una Costituzione europea in cui l’Europa non si trasformi in una realtà cosmopolita, ma trovi, a partire dal suo fondamento cristiano-liberale, la sua propria identità?
Forse il concetto dell’ecumene evangelico, non corrisponde alla realtà cosmopolita di una Europa interrogata da altre culture e da altre religioni? O forse Benedetto XVI si è dimenticato che questo flusso e riflusso di persone, culture e religioni è dovuto anche agli ideali imposti di un certo liberalismo culturale e neoliberalismo economico e politico de nostri giorni, che sospingono interi popoli a sottomettersi agli imperativi sociali e ai miti culturali dei paesi così detti sviluppati?
Che cosa succede? Com’è possibile che chi, come rappresentante di una confessione religiosa che dovrebbe sostenere il sogno dell’estensione del pensiero, della comprensione delle idee e della sintonia dei gesti, appoggi, invece, con convincimento, che un dialogo interreligioso nel senso stretto della parola non è possibile? Qual è secondo Ratzinger il dialogo interreligioso in senso stretto…? Perché, forse ne esiste uno in senso largo?
Infatti, il dialogo vero non si gioca nelle sfere più alte, perché la vita non è in gioco nelle sfere più alte delle nostre istituzioni, politiche e religiose, di per sé già morte. La vita è in gioco nei meandri più quotidiani di questa società europea in cui le persone cercano di dialogare non per mantenere privilegi e poteri, ma semplicemente per vivere, giorno dopo giorno. E sono questi gli ambiti in cui la fede sussiste comunque, tra cosmovisioni e gesti diversi, perché sussiste la voglia di vivere e la ricerca costante per abitare il mondo in un altro modo.
E’ vero, forse il cristianesimo potrebbe contribuire a questo nuovo volto dell’Europa, ma mi domando quale cristianesimo? Leggendo tra le righe, mi accorgo che Ratzinger, se avesse scritto più a lungo, avrebbe fatto ulteriori distinzioni e non solo sulle religioni, ma sull’unico specifico cristiano che, secondo lui può contribuire, cioè il cattolicesimo.
E allora gli altri, con le loro sapienze, esperienze, con le loro ricerche di Dio, di se stessi, della storia; questi altri che? Forse le loro evoluzioni, rivoluzioni e rivelazioni non servono, non contano, sono assurde? Ma questo mondo postmoderno è così cattivo?
Ma la teologia cattolica, non ha mai il dubbio della sua insufficienza? Quale privilegio abbiamo? Pazienza che questi dettagli non siano colti dal senatore Pera, ma un rappresentante di una chiesa e per di più un teologo: com’è possibile?
Allora, se scruto e mi soffermo, mi ritornano in mente le parole della figlia di una mia amica (una bambina di circa 9/10 anni) che una sera mi domandò cosa significavano le ombre, nell’allegoria della caverna di Platone. E’ vero, forse c’è bisogno di ricordare quest’allegoria e tentare una semantica del testo, per capire cosa succede nella teologia della chiesa cattolica.
Dei prigionieri sono legati in modo che possono vedere soltanto la parete di una caverna. Un grande fuoco, dal dietro, proietta delle ombre sulla parete. Che cosa vedono i prigionieri? Essi vedono le ombre proiettate dai loro corpi o da qualsiasi oggetto o sagoma che si proietti sulla parete. In poche parole, i prigionieri non possono vedere oggetti reali, ma osservano solo ombre bidimensionali proiettate da oggetti che, in realtà, non possono vedere veramente. Ed è per questo che non potendo vedere le cause reali delle ombre, i prigionieri pensano che le ombre sono l’unica vera realtà.
Sappiamo che l’antico filosofo, nel proporre l’allegoria, sperava di scoprire alcune proprietà del “mondo delle forme”. Oggi, quest’allegoria è divenuta molto importante anche per la fisica e, la fisica, ci aiuta a capire che ciò che vedono i prigionieri sono immagini bidimensionali, così che, loro, pensano che il mondo è solo bidimensionale. Questo, a mio avviso è il problema del pensiero teologico e della cultura europea di matrice cristiana oggi. Pensiamo di continuare a vivere in un mondo bidimensionale di cui ci assicuriamo conoscere tutto, anche se in realtà sono solo ombre, riflessi. Ma oggi, la storia, precisamente in quest’auto-riscoperta delle identità, si mostra in tutta la sua complessità e dunque diversità. Le culture sono espressione di una molteplicità d’individui, categorie sociali, soggetti di genere diverso, visioni del cosmo. La rivendicazione che il mondo oggi fa della sua maturità e dei suoi impulsi, non è un peccato deplorevole, ma piuttosto un’ iniziativa mistica, dal di dentro dell’essere umano, che si riscopre degno di prendere iniziativa e soprattutto desideroso di non abbandonare la storia per raggiungere l’essenza di sé, della verità e del mondo intero. Il mondo, oggi, non è più bidimensionale e forse la scienza potrebbe dirci qualcosa su queste inquietudini religiose e culturali dell’Europa.
E’ per questo che restiamo perplessi di fronte alle opinioni di un rappresentante religioso che non sostiene l’osato sogno di chi nella storia di oggi, con fatica, osa uscire dall’idea o dall’esperienza fatta nella caverna e, uscendo, percepisce altre dimensioni. Personalmente penso che cercare altre persone, altre idee, altri lineamenti, non solo storici ma anche trascendentali per ritessere la trama della vita sociale, affettiva, spirituale e politica dell’umanità, non significa perdere l’identità del proprio credo. Mentre invece mi sembra che precluderci al dialogo è un vero e proprio precluderci al mistero, alla rivelazione, alla complicità divina con l’umanità e la sua biodiversità cosmica. Certamente questo non è un cammino facile, certamente questo non è il frutto d’incontri sociali e politici, oltre che religiosi, che si fondano sulle logiche dei privilegi, a cui la chiesa cattolica, nel mondo intero, è da sempre abituata; logiche economiche, di potere, in nome del riconoscimento della propria fede.
Si tratta di un parto, di veri e propri dolori di parto; sono sforzi quotidiani, di cui forse chi sta in certi luoghi e legge la storia da un certo punto di vista, si è dimenticato o non ha mai conosciuto. Vivere le diversità costa, ha dei prezzi molto alti. Certamente è più facile omologare o meglio dominare, con un pensiero unico e testimoniare le scintille del vero con un’unica esperienza. Quando è così, forse finiscono i dolori del parto della creatività umana, ma anche, finiscono i sogni di tutti quei cambi storici reali e, invece, si riconduce tutto all’eterno ritorno dell’olimpo divino dei poteri religiosi e sociali.
Comunque, potremmo discutere fino all’infinito su questa lettura e interpretazione della storia e della vita, ma almeno facessimo memoria di qualcosa di molto semplice, che riguarda proprio le radici cosmopolite del cristianesimo primitivo, quelle raccontate dagli Atti degli Apostoli, quelle raccontate da Paolo. Forse tutti contesti ancora più bidimensionali di quelli che conosciamo noi oggi, ma che nonostante tutto, hanno permesso al cristianesimo di alimentarsi anche nelle circostanze più complesse e diverse, proprio nella sua caratteristica fondamentale di passione profonda per la riconciliazione.
Una passione che rende la teologia più apofatica, nel suo insufficiente linguaggio e per questo in ricerca, tra visione, ascolto e nostalgia per l’assenza, l’Assente e gli assenti. Un progressivo itinerario di svelamento di linguaggi alternativi, che curino le rughe non solo dell’umanità, ma anche di questa comunità credente cattolica prigioniera delle ombre. Mi auguro che qualcuno, uscendo dalla caverna, torni e ci racconti le multipli dimensioni della realtà e così continueremo a cercare, noi stessi e Dio che, secondo la visione di Ratzinger e Marcello Pera, sembra essere così estraneo alle nostre fatiche e timide comprensioni della vita. Personalmente spero che, ancora una volta, tutti coloro che bramiamo e osiamo il mondo in un altro modo, si sia perdonati per avere amato troppo e per aver dedicato la vita a cercarci reciprocamente e a cercare. Se oggi, la figlia della mia amica, torna a rifarmi la domanda, le risponderò che ogni ombra evoca qualcosa di più, non solo quello che ci sta dietro, ma quello che ci sta davanti e che sta fuori e che lei e solo lei, per essere fedele, dovrà scoprire con altre e altri.
giovedì 18 settembre 2008
"Il sottile filo che sostiene il mondo"
In questo libretto la teologa domenicana accompagna il lettore alla scoperta di echi e frammenti di spazio, di parole, di vite, di scritture... Riflessioni che vogliono lasciare spazio al lettore affinché anch'egli possa farle sue, possa farle muovere nella propria vita...
Un libro che parla di risurrezione, di risurrezioni quotidiane... di quei germogli che silenziosamente compiono i miracoli del quotidiano, della vita. Un libro che vuole parlare della vita e niente più.
Il libro può essere richiesto presso le librerie oppure direttamente alla Fraternità di Romena (0575.582060, mail@romena.it).
venerdì 27 giugno 2008
Presentazione ANTERLUX
L’impegno di Ant.er.lux è rivolto a progetti di redistribuzione che sappiano valorizzare le risorse intellettuali ed economiche di ogni popolazione e creare gemellaggi scientifico-culturali tra i continenti per realizzare un’economia solidale. Questi i principali obiettivi di un’associazione nata dalla volontà e dalla tenacia di Ersilia Ferrini e Luana Ghiandai e forte di una promotrice culturale di lucida razionalità come Antonietta Potente.
Il primo progetto di cui Ant.er.lux si è fatta promotrice è “Gli amici equosolidali”, una linea di prodotti naturali per animali realizzata in collaborazione con l’Associazione boliviana Phytosalud, che ha raccolto alcune piante officinali essenziali per la produzione di questi fitoterapici, e con la Cooperativa aretina Wipala, garante del processo commerciale.
Alla presentazione hanno preso parte la presidente Ersilia Ferrini, Antonietta Potente e Darìa Tacachiri Villca (infermiera boliviana impegnata nella formazione dell’Associazione Phytosalud), Carlo Simonetti (direttore della cooperativa Wipala) ed Alessandro Ciorba (medico veterinario e docente universitario presso l’Università degli Studi di Perugia. E' stata inagurata anche la mostra fotografica “Sotto il cielo della Bolivia”, un suggestivo percorso tra i panorami, i volti, i riti e le tradizioni della terra boliviana.
Di seguito pubblichiamo l'intervento di Antonietta Potente.
Uso precisamente il noi: plurale maiestatico perché questo evento è nostro, è plurale, è di chi in un modo o nell’altro è parte di questa complicità. Vorremmo che questo spazio condiviso si allargasse e il noi diventasse espressione di personalità profondamente solidali con la vita.
Dietro a ciascuno di noi c’è una storia e ogni volta che la storia di ciascuno si incontra con quella di altri e in qualche modo si lega a quella di altri, diventa pubblica, edita, entra nel circolo di una vera e propria responsabilità politica, cittadina e culturale.
Il termine associazione, in fin dei conti, rivela questo; capacità di far sì che le nostre storie diventino davvero responsabilmente pubbliche, politiche, entrando in dialogo con le storie di altri, altre. Forse alla nostra associazione, proprio per essere stata pensata da persone che vivono in realtà differenti, era quasi impossibile non attribuirle anche questo specifico: Associazione Interculturale. Perché da subito si sono dovuti intrecciare i fili di mondi completamente diversi, di situazioni storiche e vocazionali differenti, perché il dialogo ci ha portato subito su scenari geografici diversi.
Oggi, momento in cui la diversità culturale è sotto processo. Oggi, proprio in Europa, dove le culture non appartengono solo all’immaginario dei racconti o dei documentari, ma sono realtà molto vicine, hanno dei volti concreti e si approssimano al nostro continente con problematiche esistenziali e sociopolitiche reali.
Oggi, dunque, parlare di interculturalità potrebbe sembrare una sfida troppo grossa per tutti noi, una inutile pretesa, visto che questa problematica non la riescono a gestire nemmeno i governi e le politiche ufficiali, per cui potrebbe sembrare impossibile e troppo azzardato da parte nostra, parlare di interculturalità.
Oggi che, mentre, si dichiara il 2008 come anno Europeo del dialogo interculturale, contemporaneamente si riceve notizia dalla Plenaria del Parlamento Europeo, nel suo primo atto legislativo che riguarda l’ approvazione di una direttiva, per niente innocua, sull’immigrazione.
Eppure è proprio oggi che noi vorremmo spingerci più in là per pensare in un altro modo, non solo opinando sui provvedimenti, ma provando a dire qualcosa e a muoverci in un certo modo in questa parte di storia che, ci piaccia o no, è diversa, molteplice, plurale. Vorrei ricordare a tutti noi che una associazione interculturale non sottovaluta la complessità dei processi storici di convivenza tra popoli e culture, ma anzi, proprio perché assume questa complessità prova a pensare alla diversità e a darle spazio, per favorire questo incontro e gestire questa problematica. Dietro ad ogni diversità ci sono soggetti con problematiche concrete, storie di sopravvivenza. Ci sono sogni, desideri, miti, ma anche diritti, ricerche della propria dignità, ricerche delle proprie identità e responsabilità.
E' per questo che noi vogliamo provarci, vogliamo dare il nostro contributo, senza scappare dalla realtà, falsificarla o semplicemente coprirla sotto il velo di atteggiamenti filantropici.
Noi vogliamo parlare delle possibilità che la storia ha, proprio partendo dalle sue diversità, proprio partendo dai suoi diritti, ma anche dalle sue risorse, quelle umane e quelle generosissime dell’ecosistema. E’ per questo che ci teniamo all’interculturalità.
Cultura, questa antica parola che viene dal latino, (dal verbo “còlere”) da un verbo che di per sé significa coltivare, attendere con cura, prendersi cura e che attraversa la differente gamma dei gesti umani: prendersi cura delle persone, di sé, della natura, delle cose (economia). Coltivare un pensiero, una educazione, cioè modi di stare in questa storia. Ma è ovvio sapere che ci sono molti stili, modi di coltivare, di prendersi cura e per questo entra questo dettaglio.
E’ uno scambio, c’è un inter…qualcosa che funge da legame, c’è uno scambio…tra…intra…fra, cioè tutto il senso di un dinamismo: provare a incontrare, a comprendere, conoscere, vedere…
L’interculturalità come metodologia di crescita tra contributi differenti, modelli differenti, nei complessi processi di crescita di noi individui e società. E’ una proposta contro ogni individualismo e anche contro ogni conformismo.
In questo senso la associazione diventa uno spazio alternativo, non sostitutivo delle istituzioni, ma propositivo, capace di individuare nuovi soggetti oltre a nuove problematiche e capace di dialogare politicamente con le istituzioni, capace di suggerire e di applicare e provare strutture differenti.
Questo è un gesto profondamente storico, cioè di chi vede i fatti, di chi osserva e diventa testimone delle cose che accadono.
Penso che oggi come oggi dobbiamo essere tutti un po’ storici, per uscire fuori dai nostri anonimati, per non lasciare che la storia sia in mano a poche persone e sempre le stesse, con le solite dinamiche di gestione, di pensiero, di azione. Ma lo storico, come dicono alcune etnie del Messico appare come un soggetto fatto di tante personcine… perché lo storico non è cultore del passato, ma del presente che a sua volta è fatto anche di passato. Essere storico dunque, è essere attenti, capaci di solidarizzare con il presente, di prendere iniziativa sul presente per non lamentarci sempre e per sentire che siamo ancora vivi e che la storia ha ancora molte cose da dire, ha ancora molte risorse, molte possibilità.
Noi dunque, oggi, molto semplicemente, vogliamo renderci disponibili a questa storia, rompere o abbandonare tutti quegli atteggiamenti che fanno la vita pesante per molte donne e uomini e per la stessa biodiversità, ricordandoci anche che esistono diversi punti di vista e ogni punto di vista è prezioso e va raccolto...
lunedì 23 giugno 2008
21/ Tessere reti - Rimini 11/04/08
Tessere reti: restituire, ricostruire, resistere.
di Antonietta Potente
Vorrei ripensare insieme la trama che tesse il titolo di questi giorni del Convegno: «Tessere reti: restituire, ricostruire, resistere».
Tornare a plasmare che tutti utilizziamo quando parliamo delle relazioni tra i popoli, continenti, culture, risorse naturali… Riaprire un discorso chiuso dove tutto passa solo e sempre attraverso l'ambito economico e del mercato, dove l'ingiustizia sembra avere solo il volto dei mercati e dei mercanti locali e internazionali. Tessere per riaprire il pensiero, le parole e la visione, sull'amore alle sapienze e alle diversità. Superare un linguaggio che oggi come oggi mi sembra divenuto troppo retorico.
Si tratta solo di una mia lettura, forse molto personale, intorno ad alcuni concetti e alcuni termini, usati nei nostri ambiti di impegno storico e che provocano in me alcune inquietudini.
Quello che propongo è soltanto un approccio, una chiave di lettura filosofica. «Tessere reti: restituire, ricostruire, resistere»: mi domando se a questi verbi, così cari nell'universo simbolico delle nostre complicità sociali, non possano esistere anche altri. Mi domando se oltre al restituire, ricostruire, resistere, non esistano altri gesti da esplorare. Ma per far questo parto ancora una volta dal contesto storico attuale e vorrei descrivere il contesto usando le eloquenti immagini di una danza: il Flamenco.
L'interpretazione è tratta dall'opera Live (la prima parte chiamata Martinete) di Joaquín Cortés. Grido, sogno, nostalgia, protesta; nomade passione di identità in ricerca.
Nostalgia, dolcezza e forza, intesa come sforzo. Frammenti di molte musiche e di molti movimenti. Nasce da un punto geografico senza arché, anarchico, ed è nomade come il desiderio e come il sogno. Qualcosa di intrattenibile, una vera e propria fuoriuscita di storia. Queste immagini si riferiscono a un canto, un grido… esplosione di una voce che segue il movimento più bello della vita, la fuoriuscita delle cose, siano esse suoni, scintille di luce, elementi della terra, frutti o esplosioni di lapilli vulcanici… desideri, parole… ma comunque e sempre fuoriuscite, perché la storia si porta avanti per queste fuoriuscite di vita, esplosioni di energie rimesse in movimento. Esplosione di un' idea, di un sogno, di un' intuizione, di un processo vitale. Non la monotona cronologica successione di avvenimenti, ma la fuoriuscita della resistenza. Perché anche questa danza, questo canto e grido, è una fuoriuscita di resistenza, no come passiva condizione di vita, ma come capacità di non farsi cacciare fuori dalla vita, succeda quel che succeda. Una mescolanza di stili di musica differenti: ingredienti orientali, indù, greci, bizantini, arabi, ebrei… Ingredienti che si sono fusi lungo la storia e sotto il sole dell' Andalusia…
I gitani, in seguito, sarebbero coloro che con spirito nomade raccolgono questi frammenti. Cultura mista, meticcia; un mistico linguaggio dei gesti del corpo e delle mani, una raccolta di gesti preziosi della vita e grido, espressione di nostalgie, pianti e lamenti, feste e gioie. Storie di dignità e storie di sfruttamento, ricerche e sempre più incessanti ricerche per arrivare al tempo della vita. Comunità clandestine, dice la storia, simboli di marginalità e disobbedienza totale. Probabilmente è per questo che comunque questa danza resta occulta e conserva toni misteriosi e io direi mistici. Soffusa dignità che viene dal basso e occupa lo spazio bellissimo della vita, anche se ufficialmente questa vita non la riconosce.
Anche il nome è curioso: Flamenco, i suoi gesti e movimenti ricordano quelli dei Fenicotteri che in castellano si chiamano Flamencos… Secondo alcuni potrebbe anche essere un gioco fonetico di una espressione arabo-spagnola «Fellah mengu» che letteralmente significa «Contadino senza terra». Per altri evoca il fuoco… Fa parte del mistero. E' comunque certo che chi sostiene il movimento e il passo, oltre agli strumenti, è il ritmo delle mani e dei piedi, insieme al grido , la fuoriuscita della voce. Nella parte che abbiamo ascoltato, è il grido di una donna… o forse della terra, dico io, visto che le parole che fuoriescono dal grido evocano la terra e la sua benedizione…Benedetta terra, terra benedetta, gridava questa donna, terra bruciata… io non so.., ma dopo la notte spunta l'alba e sorge il sole… anche la cadenza di questa certezza segue un ritmo: diviene certezza perché ripetuta, più volte.
Le conclusioni o, l'apertura verso il futuro, le affido al gioco misterioso delle parole di una canzone di Gianna Nannini: «Muro, muro». Alchemiche parole che ricordano elementi della storia quotidiana, ma che soprattutto rivendicano quel diritto che mantiene in vita la sapienza dei popoli. Segreto che raggiunge i nostri orecchi e i nostri occhi in un eco e in una luce silenziosa, evocando solo il mistero. Silenzio, segreto, aspetti così poco considerati nei difficili equilibri della pace e della giustizia. Prigione è non potersi chiudere dentro… Noi abituati al sogno di un mondo purificato, ma ancora così poco amanti di un mondo «diverso».
Mondo rifatto con i pezzi: pezzi di storia, pezzi di sapienze, pezzi di ideologia, pezzi di natura, di minerale, di risorse naturali… luce, aria, muro, ferro, pietra… Noi che parliamo sempre del presente con la nostalgia del passato, come se prima avessimo conosciuto qualcosa di totalmente bello. Come se ricordassimo il paradiso perduto e invece nessuno sa come dovrebbe essere, nessuno così come non lo seppero gli asceti del IV e V secolo, o i mistici del 1300 con le loro olistiche vite e gli idealisti illuminati e i rivoluzionari dei tempi tecnologici.
La verità non ha proprietari come il sole, l'acqua la luna, le nubi, per cui non solo bisogna difenderle dalle multinazionali, ma bisogna anche difenderle dalle grette ideologie, o dalle dogmatiche dottrine e dai facili imbrogli delle sornione politiche dei qualunquisti. Prigione è non potersi chiudere dentro… possibilità degli spazi segreti delle identità e delle dignità umane: celle interiori da cui possiamo salvaguardare i sogni e anche il futuro con la sua alternativa dei tempi. E questo, oggi, proprio oggi, tempo in cui gli individui sono dimenticati da tutti, perché massificati nell'economia e nel mercato. Potenzialità alternative ritrovate dentro, quando si scava nella storia, nella terra e anche nell'aria, graffiandola una più volte per percepire il suo vero significato e il suo contenuto. Un sapere cui soggetti sono persone concrete, individui e collettività, segreti principi attivi, capaci di alimentarsi e alimentare reazioni inaspettate di vita…
sabato 21 giugno 2008
Presentazione di "Qualcuno continua a gridare"
La teologa domenicana, nata in Liguria nel 1958, da più di dieci anni ha trovato in Bolivia il perfetto equilibrio tra vita e passione. Il libro si legge tutto d’un fiato. Un libro «gridato a bassa voce», con la delicatezza e la determinazione di una donna che intende la «mistica politica» come «chiave di lettura per interpretare la postmodernità». «Ciò che accompagna armoniosamente queste riflessioni è la mistica – spiega Antonietta Potente nella prefazione del volume – qualcosa che la Chiesa si è sforzata di tenere lontano dalla quotidianità. La mistica è una trama segreta che vogliamo tornare a scoprire per sentire il calore della vita. Sono i sensi che si risvegliano provocati dalla vita, è l’alba dei sensi…quando tutto resta assolutamente in silenzio».
Il pensiero di Antonietta Potente cerca e si mette in sintonia con la ricerca dei protagonisti e delle protagoniste del racconto e poggia su una puntuale disamina della riflessione ecologica e di genere. «La mia teologia – continua la scrittrice – è una scienza solidale e complice con i narratori e le narratrici di racconti. Tutte e tutti siamo sfidati da questo: ci sono coloro che fanno teologia ufficialmente e coloro che semplicemente raccontano o semplicemente vivono, respirano, stando ‘dentro’ e nulla più. Tutti i soggetti della teologia debbono uscire da ogni schema prestabilito e seguire la vita con i suoi delicati movimenti, stare dentro di lei... non solo con il gusto di ‘servire’, ma anche di ‘toccare’: questo è il gesto mistico-politico della vita».
L’opera di Antonietta Potente si sviluppa a partire da una ricerca ermeneutica intorno alla teologia, come arte dell’etica nella storia, oltre che da un ripensamento della vita religiosa alla luce di una spiritualità ancorata al presente che unisce mistica e politica. La sua riflessione lucida e concreta la pone tra le teologhe più fertili e creative del panorama italiano e sudamericano.
All’incontro hanno partecipato: Ersilia Ferrini, presidente di Ant.Er.Lux, Antonietta Potente, scrittrice e teologa da anni impegnata nella cooperazione con la Bolivia e promotrice culturale di nt.Er.Lux, Darìa Tacachiri Villca, infermiera boliviana impegnata nella formazione di una comunità di cinquecento donne a Cochabamba, Carlo Simonetti, direttore della cooperativa Wipala, Alessandro Ciorba, medico veterinario e docente universitario presso l’Università degli Studi di Perugia.
venerdì 21 marzo 2008
Un pensiero di Antonietta
venerdì 8 febbraio 2008
Articolo da La Stampa del 6 febbraio 2008
di Marina Beltrame
«Sentivo che essere teologa e fare teologia non poteva chiudermi in un ghetto di privilegiati. - racconta - Sentivo che c’erano aspetti della vita e di Dio che non avevo ancora scoperto e che era importante chiederne ad altri: ad altre culture, ad altri contesti storici, ad altre categorie di persone, soprattutto a quelle categorie ancora ‘’inedite’’ alla storia ufficiale».
«La congregazione delle Suore Domenicane di San Tommaso d’Aquino è stato un importante spazio di crescita e di intuizioni. - prosegue - Credo che ogni essere umano, quando matura nella sua affettività e nella sua capacità di pensare, diventi capace di dedicarsi alla ‘’vita’’ e nella vita ci sono gli altri, la natura con le sue risorse e anche le cose. Non considero ‘’gli altri’’ come dei ‘’bisognosi’’ che aspettano il mio aiuto, ma considero la realtà, la storia, gli avvenimenti con i loro soggetti, come veri e propri interlocutori. E’ una passione cresciuta tra i ‘’parti’’ della mia maturità umana: quelli della mia fede, delle mie ricerche e, soprattutto, dei miei incontri».
Dopo gli studi a Roma, Antonietta Potente si è occupata di pace e di giustizia: «Ho vissuto nella capitale quando nel dibattito politico si discuteva il disarmo, la presenza delle basi americane sul territorio italiano e quando nel mondo si vivevano differenti rivoluzioni, che chiamerei mistico -politiche, visto che non furono solo rivoluzioni armate: Nicaragua, Filippine, la caduta del regime dei Bianchi in Sud Africa, la Guerra del Golfo. Roma é luogo di ambasciate e questo facilitava il nostro impegno: sit-in, volantinaggi, marce, scioperi della fame di intere settimane davanti a Montecitorio. Questo non mi distraeva dal mio impegno come docente universitaria, che nel frattempo svolgevo anche a Firenze, e come lettrice e interprete del Mistero». In quegli anni conosce l’Africa (Uganda e Mozambico), frequenta il Centro interconfessionale per la pace, «punto d’incontro fondamentale per le diverse confessioni e religioni», partecipa a Budapest ad un congresso tra le diverse confessioni cristiane di tutto il mondo, dove la teologia si confronta sui temi della giustizia e della pace, conosce grandi esponenti della teologia europea (Jürgen Moltman), latino-americana (Enrique Dussel) e asiatica (Tissa Balasuriya) e interviene sul tema della pace e delle donne. «Un universo della diversità che mi affascinò. Furono esperienze che segnarono moltissimo la mia vita di giovane teologa».
La sua congregazione, già presente in America Latina, facilitò il contatto con quel continente. «Durante la prima visita rimasi in Argentina 5 mesi. Rimasi profondamente inquieta, ma anche profondamente affascinata. Fu un nuovo innamoramento e questo fece sì che si allargassero le prospettive e anche gli spazi». In seguito si trasferì in Bolivia. «Dopo i primi quattro anni, ebbi la possibilità di allargare lo spazio classico della ‘’vita religiosa’’, cioé della vita comunitaria con le altre suore. Nel ‘98 mi fu data la possibilità di fare comunità con una famiglia Aymara in una zona Quechua (Cochabamba). La mia teologia aveva bisogno di confrontarsi con un contesto vero e reale, in cui condividere tutto: i beni, l’economia, i frutti del lavoro, gli spazi nella casa. A questo nostro stare insieme demmo anche un nome: ‘’Sumaj Causay Wasy’’, la ‘’Casa del Buon Vivere’’. Ormai sono 10 anni che viviamo insieme». Alcuni membri della comunità hanno dato vita ad un progetto che coinvolge più di 300 donne e che mira, attraverso un percorso di formazione, prevenzione e presa di coscienza, a risolvere i problemi di salute di donne e bambini, a diffondere l’alfabetizzazione e a cercare fonti alternative di sussistenza economica.
(da La Stampa di mercoledì 6 febbraio 2008, cronaca di Savona, pag. 58)
lunedì 28 gennaio 2008
"Qualcuno continua a gridare"
Per cui affrontare il tema e la complessità della postmodernità, significa capire che questo è il nostro tempo, il solo e l’unico che ci è dato di vivere. Oppure parlare di gas e petrolio, di clima e armi chimiche, significa «recuperare il criterio elementare per una visione etica che è lo sguardo sulla vita concreta e sul bene comune, antico imperativo della più ancestrale biodiversità». E infine occuparsi in teologia di sessualità, non significa negarla o sublimarla nella sua rinuncia, ma ripensarla come energia creativa, data agli uomini e alle donne che vivono, perché Lui e lei possano riposare, e l’Universo possa avere un altro destino.
Un libro per scoprire e capire che «nella storia, la mistica nasce nelle società attraversate da movimenti di riforma creativa e di riscoperta di se stesse», non in quelle che si sono chiuse nel rito e nella tradizione. Forse per questo un libro che, a leggerlo, fa venire nostalgia della “sapienza”. (da Peacelink)
lunedì 7 gennaio 2008
20/ Una spiritualità della liberazione - Torino 21/11/07
Appunti per una spiritualità della liberazione.
di Antonietta Potente
Vi ringrazio per avermi invitato a condividere queste idee e questo tema. Ascolteremo un canto latinoamericano che parla di alcuni dei temi centrali della mia riflessione. Spero, dopo il mio intervento, in uno scambio con voi e le vostre riflessioni perché questi sono temi che possono cambiare sfumature in rapporto ai contesti storici che viviamo per cui, probabilmente, io li leggi dal punto di vista dell’esperienza e del contesto storico dove vivo, che mi ispira. Voi conoscete altri contesti e potrete ritradurre questi temi nella vostra riflessione.
Corazon libre
di Rafael Amor (cantata da Mercedes Sosa)
Te han sitiado corazón y esperan tu renuncia,
los únicos vencidos corazón, son los que no luchan.
No los dejes corazón que maten la alegría,
remienda con un sueño corazón, tus alas malheridas.
No te entregues corazón libre, no te entregues.
No te entregues corazón libre, no te entregues.
Y recuerda corazón, la infancia sin fronteras,
el tacto de la vida corazón, carne de primaveras.
Se equivocan corazón, con frágiles cadenas,
más viento que raíces corazón, destrózalas y vuela.
No te entregues corazón libre, no te entregues.
No te entregues corazón libre, no te entregues.
No los oigas corazón, que sus voces no te aturdan,
serás cómplice y esclavo corazón, si es que los escuchas.
Adelante corazón, sin miedo a la derrota,
durar, no es estar vivo corazón, vivir es otra cosa.
Traduzione italiana:
Ti hanno occupato cuore e sperano nella tua rinuncia,
Gli unici vinti, o cuore, sono quelli che non lottano.
Non lasciare, o cuore che uccidano l’allegria,
ricuci con un sogno, o cuore, le tue ali ferite,.
Non ti arrendere, cuore libero, non ti arrendere.
Non ti arrendere, o cuore libero, non ti arrendere.
E ricorda l’infanzia senza frontiera.
Il tatto della vita, pelle di primavera.
Si sbagliano, o cuore, con fragili catene,
più vento che radici, distruggili e vola.
Non ascoltarli, o cuore, perché le loro voci non ti confondano,
sarai complice e schiavo, o cuore, se li ascolti.
Avanti, o cuore, senza paura e scoraggiamento,
durare non è restare vivo, vivere è un’altra cosa.
Il tema che mi avete proposto è molto ampio e difficile da trattare in pochi minuti. Cercherò, quindi, di dire qualcosa assumendo un punto di vista, un criterio di lettura, una mia ermeneutica, una mia interpretazione. Le interpretazioni possono essere tantissime e soprattutto più ci avviciniamo ai contesti storici reali e più queste provocazioni storiche ci porteranno ad interpretare questo tema anche in modi differenti.
Vorrei riprendere questi due grandi blocchi, queste due grandi parole, che poi sono parti molto importanti della nostra storia. Il tema della spiritualità e anche il tema della liberazione. Anche se credo che questi due temi vadano compresi insieme, essi infatti non sono due temi separati, probabilmente parlando di uno scopriamo anche l’altro. Ciascuno di questi due temi coinvolge la storia, la vita, gli individui, i popoli, le culture, e anche – come vedremo – la stessa creazione.
Per questo è necessario scegliere un punto di vista, per far sì che questi temi non siano solo retorica. In modo da non tradire i contesti concreti della nostra vita e della vita degli altri. Da parte mia non vorrei perdere nessun dettaglio, nessuna sfumatura che questi temi ci offrono, che la storia ci offre.
Riferendomi al contesto in cui io mi muovo normalmente potrei parlare utilizzando questi due grandi termini, spiritualità e liberazione, con una metodologia o con un’ermeneutica specifica della spiritualità e della teologia della liberazione. Per affrontare la vastità di questo tema volutamente scelgo una lettura esistenziale.
Se abbiamo un diritto a parlare di spiritualità e di liberazione è perché viviamo ed è perché la storia vive, i popoli vivono, le culture vivono. In questa storia esistenziale ci stiamo tutti: c’è la storia di noi come individui, con tutte queste sottili vivenze storiche, con tutte queste vite che si intrecciano; c’è tutta la parte della nostra vita che è la vita politica, affettiva, sociale, le nostre lotte per poter continuare a vivere in questa società; e poi le esistenze dei nostri popoli, dei contesti socio-politici che senza saperlo ci segnano profondamente.
Parlare di questi temi dal punto di vista esistenziale non risolve la vastità del problema. Lascio però il problema aperto, volutamente. Mi sembra importante scoprire fin dove vogliamo parlare di queste cose, e anche scoprire perché vogliamo parlarne. Qual è il nostro interesse, le nostre inquietudini che ci provocano ancore l’interesse a parlare di spiritualità, e di spiritualità della liberazione.
Quasi sempre i grandi temi della vita non nascono dalle teorie, ma nascono dalle esperienze, da questi contatti reali con la storia, per cui se voi avete scelto queste problematiche è perché probabilmente la vostra esperienza con la storia attuale vi porta a domandarvi di queste cose. Per lasciare questa possibilità di intervento, per fa sì che ciascuno si senta invitato ad intervenire sul tema e a fare la propria ermeneutica vorrei soffermarmi su quella che è un po’ la storia di questi due elementi: spiritualità e liberazione.
La spiritualità, così come la liberazione, ha una storia, un punto di inizio. Dietro alla spiritualità c’è tutta la vitalità dello Spirito e dietro alla liberazione c’è tutto il sogno della libertà. Certamente questi due temi, spirito-spiritualità e libertà-liberazione, evocano delle inquietudini, probabilmente dovremmo dirci cosa intendiamo con essi. Questi aspetti li cogliamo dai parti storici, dalle dinamiche della vita, dell’umanità, della creazione e credo che per trattare questi temi il primo passo è uscire da tutti i pregiudizi ideologici, istituzionali; che chiudono i temi, e li confinano solo ad alcune appartenenze. Cioè si pensa che la spiritualità appartenga solo alle religioni, e la liberazione, da un punto di vista anche soteriologico, appartenga solo a questi grandi messaggi delle religioni: qui si chiude il discorso. Bisogna uscire da questi criteri puramente ideologici, dai pregiudizi, essi infatti non appartengono solo a certe categorie, questi sono temi sono terribilmente laici: appartengono ai popoli, a tutte le culture, a tutte le persone e i gruppi umani che ancora cercano e che devono affrontare la vita. Questa è una premessa importantissima. Spiritualità e liberazione non sono solo i temi dei credenti, della fede, ma sono i temi storici dove dall’esperienza di fede, dall’appartenenza ad una comunità credente può nascere una certa interpretazione, però non sono temi di proprietà privata di nessuno in questa storia. Probabilmente proprio in questo consiste la difficoltà, perché quando noi li consideriamo di proprietà privata di alcune ideologie e di alcune esperienze religiose già chiudiamo il discorso. Trattare questa problematica diventa, così, ancora più difficile.
Si tratta di inquietudini storiche che appartengono all’umanità e al cosmo, che fanno parta della storia senza distinzioni di appartenenze, appartenenze che hanno solo avuto la funzione di interpretare e di dare dei contributi su queste problematiche. Però nessuna appartenenza può dire tutto nella storia. Come non mai, nella storia attuale, postmoderna, questi due temi rivendicano la propria laicità. E in questo senso lo Spirito non evoca solo ciò che è religioso, ma evoca realmente ciò che è storico e umano oltre che cosmico. Lo Spirito evoca tutta l’inquietudine della realtà, la sfida di oggi è: come raccogliere queste inquietudini nelle nostre storie, anche personali? Sono due temi che invitano gli individui ad allargare la mentalità, ci chiedono di aprirci, di salire, di uscire dalle nostre semplici problematiche individualistiche. Proprio la spiritualità nasce come critica, o come sospetto, alla morale, come diceva anche Nietzsche, intesa come un’origine a priori della storia. La spiritualità, quando nelle società e nelle culture comincia a farsi spazio, o rivendica uno spazio, o spinge, è perché nasce come una critica alla dottrina e alla morale che si impone come unica origine del comportamento umano, come qualcosa che sta a priori e che l’essere umano deve imparare.
Se ripercorriamo la storia questo è avvenuto tantissime volte, tutte le volte che dei gruppi umani rivendicano lo spirito, non solo nelle istituzioni religiose ma anche nelle istituzioni sociali e politiche. Questo avviene perché rivendicano il diritto alla dignità. Un aspetto questo importantissimo, che abbiamo visto già in altri momenti storici, e credo che in questo momento storico stia avvenendo lo stesso. Questo bisogno di ricuperare l’interiorità intesa, non come intimismo, ma come spazio dove l’essere umano ri-crea qualcosa, e si sente a casa. Questo è tipico del nostro mondo e nasce lì dove incominciamo a sospettare un po’ di questi a priori che esistono o che ci fanno pensare che esistono prima di noi.
Se seguissimo quest’eco storico arriveremmo a riscoprire l’eco delle Scritture. Quando diciamo che noi non vogliamo appropriarci di questi temi solo come i temi delle religioni o delle fedi, in realtà affermiamo che se riuscissimo davvero a riscoprire l’umano di questi temi, l’inquietudine di questi temi nella storia, arriveremo a capire in modo differente le religioni. Per cui non è dimenticarci delle religioni, o dimenticarci dell’umano, per riscoprire la vera spiritualità, ma anzi, riscoprendo, entrando sempre di più in questo umano più quotidiano, arriviamo a reinterpretare le Scritture.
Probabilmente questa era stata la metodologia della spiritualità della liberazione in America Latina. Il contesto storico così forte portava la teologia a reinterpretare le Scritture, la tradizione e la dottrina. Un itinerario profondamente interessante che non mette la laicità contro la religione ma che mette queste due grandi sensibilità alla pari. Il problema è che noi invece, non vogliamo stare alla pari: vogliamo che la religione abbia il sopravvento sulla laicità, ma questo è falso perché se davvero la storia riuscisse a fare il percorso della laicità, dell’umanità, della creazione, come è avvenuto in altre culture o in altri momenti storici, si arriverebbe alla spiritualità più profonda, all’anima della religiosità, ma noi ci muoviamo sempre in queste grandi diffidenze o sospetti.
Dal punto di vista teologico nelle Scritture c’è stato un itinerario. Purtroppo nella dottrina, soprattutto nella teologia occidentale, siamo arrivati a personalizzare troppo lo Spirito, a ipostatizzare, a considerarlo come persona divina e abbiamo saltato tutto questo itinerario di avvicinamento e di comprensione alla realtà storica e a tutta la realtà cosmica, non solo degli esseri umani, ma di tutto il cosmo. Questo Spirito identificato come persona divina, prima di tutto era identificato come la respirazione di Dio (Esodo 15,10), o come una presenza che agitava gli alberi, che scuote e trascina il grano (Isaia), una presenza cosmica ma anche una presenza nell’antropologia umana, una aspirazione della vita, che se si perde e abbandona la storia muore (Sal 78, 104). Il principio di questo Spirito, anche nelle Scritture, sfugge. Questo aspetto è bellissimo, quando si dice che “non si sa da dove viene e dove va”, diremmo che questa qualità dello Spirito ci protegge da ogni arroganza, da ogni indottrinamento, da ogni moralismo, perché ci sfugge il principio (l’arché) e ci sospinge più lontano, probabilmente ci da il gusto della liberazione come solidarietà tra Dio e la storia.
Questa solidarietà le Scritture la identificano con il Verbo, dicendo che lo Spirito, semplicemente, abita la storia. Ed è per questo che la storia, anche nell’esperienza delle comunità cristiane, diventa avvenimento, non solo una piatta ricorrenza cronologica, ma un avvenimento.
Il poeta messicano, premio nobel per la letteratura nel 1991, Octavio Paz parlava di un presente che si muove tra evoluzione, rivoluzione e rivelazione. Questa è la storia secondo lo Spirito: un processo evolutivo dove noi riconosciamo nella storia la sua autonomia, i suoi dinamismi interiori, segreti, invisibili; dove riconosciamo queste iniziative che irrompono nella storia. La rivoluzione intesa, non solo come dinamismo storico di rottura, ma come la capacità dell’umanità, dei popoli, della mente umana, nella sua inquietudine di rivoltare le cose, rivoluzionarle e darle un’altra posizione dentro la storia. Questi due elementi, l’evoluzione e la rivoluzione, che nella prospettiva dei credenti non sono dei momenti qualunque ma sono momenti rivelativi, con tutto quello che questo termine significa, che non è la chiarezza delle cose e degli avvenimenti ma è, probabilmente, una scintilla di luce che poi torna di nuovo a coprirsi nella quotidianità della storia; che porta noi esseri umani a stare attenti a questa realtà e a non tradirla, non smettere di stare in questa vigilanza costante che poi è l’atteggiamento che ci piacerebbe tanto avere: l’atteggiamento profetico, ovvero la capacità di guardare costantemente la storia, di leggerla, ed entrare in queste rivoluzioni ed evoluzioni storiche per poter vedere la storia in un altro modo, in questa dialettica tra laicità e religione, scoprendo misticamente dei lineamenti differenti del mistero.
Probabilmente quello che noi non riusciamo a fare nella storia, che la teologia non riesce a restituire all’umanità, ai popoli e alle persone comuni, è precisamente questo desiderio di ritrovare l’iniziativa e quindi di avvicinarsi, questo osare avvicinarsi alla storia con sempre più creatività. Da troppo tempo abbiamo diviso la storia dal mistero in una dicotomia così assoluta per cui il mistero segue il suo cammino e la storia segue un altro cammino e questo ci rende quasi come immaturi, o ci fa sentire tali, di fronte a tutto quello che questo mistero ci vorrebbe dire. Siamo diffidenti di fronte al mistero e non prendiamo l’iniziativa. Abbiamo paura, un certo tipo di morale, un certo tipo di dottrina ci hanno marcato e segnato con la paura, dicendoci che il mistero non si può toccare.
Questo si deve anche ad un ermeneutica particolare, perché la teologia è sempre stata fatta da delle persone con un ruolo particolare nella comunità credente. La sacerdotalità della teologia, che ha bisogno di mediatori, questo non è parte della spiritualità. La spiritualità restituisce questa iniziativa agli esseri umani, e dice loro che si possono avvicinare al mistero. Sentiamo il Vangelo così vivo spiritualmente perché i gesti di Gesù, il suo modo di vita, ci fa pensare che il mistero si è avvicinato alla storia e che quindi rimette in movimento tra i suoi contemporanei questa speranza di poter toccare il mistero. Ma poi lungo la storia, tante volte, noi ci siamo di nuovo riappropriati del mistero: la teologia, certe categorie di persone addette ai lavori nell’ambito della comunità credente, si sono appropriate di questo mistero e ancora una volta noi rimaniamo attoniti.
A volte parlando con alcune persone in America Latina ti senti dire: “tu sei suora, tu sei prete, voi siete più vicini a Dio”, questo discorso è solo un discorso di ruoli, che è stato portato avanti nella società e non solo negli ambiti semplici. C’è stata tutta una dottrina che ha costruito questo tipo di immagine secondo cui il mistero non si può toccare, eppure anche noi, in una religione come la nostra, dove il mistero dell’incarnazione aveva cercato di rompere questo schema, siamo ritornati di nuovo a questa prospettiva. Non osiamo prendere iniziativa nella storia. E se non prendiamo iniziativa con il mistero finiamo per non prendere iniziativa neanche nella storia. La passività con Dio è anche la passività etica nei momenti storici più importanti. Le istituzioni religiose e politiche fanno di tutto affinché non si prenda iniziativa. Anche in queste grandi ideologie politiche e sociali, che ci potevano dare delle ispirazioni, quando cominciano a diventare ideologie a priori, che sanno già tutto... Sartre aveva intuito che alcune ideologie fondamentali potevano aiutare la storia, però quando incominciò a vedere che anche queste ideologie davano tutto per scontato e dettavano tutto a priori e gli altri dovevano solamente obbedire, cominciò a diventare critico.
In questo momento storico c’è bisogno di riscoprire questa spiritualità della liberazione nel senso del poter, un’altra volta, allargare gli spazi. Questo noi lo possiamo fare, la teologia lo può fare, se restituisce una nuova immagine del mistero che non è lontano. Nessuno può dire che io non mi posso avvicinare o che non posso interpretare o prendere questa iniziativa nella storia, nella realtà.
Nell’ambito della prospettiva occidentale è stato fatto un danno abbastanza grave, cosa che forse nella prospettiva teologica dell’oriente cristiano è stato meno incidente, la teologia occidentale ha reso tutta la riflessione troppo antropocentrica, il Cristo antropos, specchio dell’essere umano, questo ha atrofizzato tutto il resto, l’iniziativa per poter scoprire Dio anche in un altro modo. La tradizione orientale, invece, ha lasciato più spazio al Cristo cosmico per cui la contemplazione si potrebbe dare passando per la natura, per gli elementi segreti della natura. Noi dobbiamo recuperare questo aspetto. Una volta silenziato lo Spirito si è silenziata la storia. Le possibilità alternative che le storia ha, si è silenziato il mistero perché tutte le volte che noi sappiamo tutto si chiude qualcosa per cui non possiamo continuare in questo senso restando solo tra di noi nella realtà.
Adesso credo che quello che ci insegna, o ci evoca lo Spirito lungo le comprensioni storiche e anche lungo la tradizione scritta, la tradizione biblica, credo che quello che lo spirito insegna è, come dice Paolo, la diversità, il mistero degli altri, il mistero dell’alterità. Ma ci insegna anche il segreto, il silenzio degli avvenimenti, ci insegna ad assicurare la libertà degli esseri umani, degli animali, degli elementi fisici e chimici e ci insegna la ricerca, il discernimento, le scelte, il linguaggio alternativo.
Lo Spirito ci insegna il linguaggio del genere, il linguaggio interculturale, interreligioso, l’esigenza di rendere le azioni nuove in tutti gli ambiti storici. Lo Spirito ci insegna dei tentativi di vita, ci sveglia, sono tentativi etico-mistici dove impariamo a stare nella storia. Nella tradizione ebraica un leggenda dice che nella creazione l’essere umano aveva solo un compito, doveva compiere solo una fatica: imparare a conoscere le piante e gli animali. La spiritualità è questo compito, è questa fatica: imparare a conoscere per poter imparare ad abitare nella storia. È un compito, una fatica che dura nel tempo, non è una cosa che si impara una volta per tutte, o che diventa un modo di vita dettato da certe norme. Si impara nelle relazioni, ascoltando e ricercando costantemente il mistero, nella vicinanza con l’umanità. La spiritualità della liberazione io la leggo, soprattutto in questo momento, come la rivendicazione più bella dei diritti delle persone, delle cose, del cosmo.