giovedì 18 settembre 2008

"Il sottile filo che sostiene il mondo"


E' uscito il nuovo libro di Antonietta Potente presso le edizioni della Fraternità di Romena, Il sottile filo che sostiene il mondo. Considerazioni sulla vita e su noi stessi.

In questo libretto la teologa domenicana accompagna il lettore alla scoperta di echi e frammenti di spazio, di parole, di vite, di scritture... Riflessioni che vogliono lasciare spazio al lettore affinché anch'egli possa farle sue, possa farle muovere nella propria vita...

Un libro che parla di risurrezione, di risurrezioni quotidiane... di quei germogli che silenziosamente compiono i miracoli del quotidiano, della vita. Un libro che vuole parlare della vita e niente più.


. Il sottile filo che sostiene il mondo, Fraternità di Romena, Romena 2008, 10 euro.

Il libro può essere richiesto presso le librerie oppure direttamente alla Fraternità di Romena (0575.582060, mail@romena.it).

venerdì 27 giugno 2008

Presentazione ANTERLUX

E' stata presentata il 20 giugno scorso ad Arezzo la nuova associazione Ant.er.lux. L’Associazione è nata con l’intento di sostenere il processo di crescita dei paesi in via di sviluppo ed il consolidamento dei diritti umani attraverso lo scambio scientifico e culturale.
L’impegno di Ant.er.lux è rivolto a progetti di redistribuzione che sappiano valorizzare le risorse intellettuali ed economiche di ogni popolazione e creare gemellaggi scientifico-culturali tra i continenti per realizzare un’economia solidale. Questi i principali obiettivi di un’associazione nata dalla volontà e dalla tenacia di Ersilia Ferrini e Luana Ghiandai e forte di una promotrice culturale di lucida razionalità come Antonietta Potente.
Il primo progetto di cui Ant.er.lux si è fatta promotrice è “Gli amici equosolidali”, una linea di prodotti naturali per animali realizzata in collaborazione con l’Associazione boliviana Phytosalud, che ha raccolto alcune piante officinali essenziali per la produzione di questi fitoterapici, e con la Cooperativa aretina Wipala, garante del processo commerciale.
Alla presentazione hanno preso parte la presidente Ersilia Ferrini, Antonietta Potente e Darìa Tacachiri Villca (infermiera boliviana impegnata nella formazione dell’Associazione Phytosalud), Carlo Simonetti (direttore della cooperativa Wipala) ed Alessandro Ciorba (medico veterinario e docente universitario presso l’Università degli Studi di Perugia. E' stata inagurata anche la mostra fotografica “Sotto il cielo della Bolivia”, un suggestivo percorso tra i panorami, i volti, i riti e le tradizioni della terra boliviana.

Di seguito pubblichiamo l'intervento di Antonietta Potente.

In questi tipi di eventi ogni parola può assumere un tono un po’ retorico; puro discorso che forse può sembrare anche demagogico.Ma per noi che questa sera ci presentiamo ufficialmente come associazione, questo evento non è per niente scontato.

Uso precisamente il noi: plurale maiestatico perché questo evento è nostro, è plurale, è di chi in un modo o nell’altro è parte di questa complicità. Vorremmo che questo spazio condiviso si allargasse e il noi diventasse espressione di personalità profondamente solidali con la vita.
Dietro a ciascuno di noi c’è una storia e ogni volta che la storia di ciascuno si incontra con quella di altri e in qualche modo si lega a quella di altri, diventa pubblica, edita, entra nel circolo di una vera e propria responsabilità politica, cittadina e culturale.

Il termine associazione, in fin dei conti, rivela questo; capacità di far sì che le nostre storie diventino davvero responsabilmente pubbliche, politiche, entrando in dialogo con le storie di altri, altre. Forse alla nostra associazione, proprio per essere stata pensata da persone che vivono in realtà differenti, era quasi impossibile non attribuirle anche questo specifico: Associazione Interculturale. Perché da subito si sono dovuti intrecciare i fili di mondi completamente diversi, di situazioni storiche e vocazionali differenti, perché il dialogo ci ha portato subito su scenari geografici diversi.

Oggi, momento in cui la diversità culturale è sotto processo. Oggi, proprio in Europa, dove le culture non appartengono solo all’immaginario dei racconti o dei documentari, ma sono realtà molto vicine, hanno dei volti concreti e si approssimano al nostro continente con problematiche esistenziali e sociopolitiche reali.

Oggi, dunque, parlare di interculturalità potrebbe sembrare una sfida troppo grossa per tutti noi, una inutile pretesa, visto che questa problematica non la riescono a gestire nemmeno i governi e le politiche ufficiali, per cui potrebbe sembrare impossibile e troppo azzardato da parte nostra, parlare di interculturalità.

Oggi che, mentre, si dichiara il 2008 come anno Europeo del dialogo interculturale, contemporaneamente si riceve notizia dalla Plenaria del Parlamento Europeo, nel suo primo atto legislativo che riguarda l’ approvazione di una direttiva, per niente innocua, sull’immigrazione.

Eppure è proprio oggi che noi vorremmo spingerci più in là per pensare in un altro modo, non solo opinando sui provvedimenti, ma provando a dire qualcosa e a muoverci in un certo modo in questa parte di storia che, ci piaccia o no, è diversa, molteplice, plurale. Vorrei ricordare a tutti noi che una associazione interculturale non sottovaluta la complessità dei processi storici di convivenza tra popoli e culture, ma anzi, proprio perché assume questa complessità prova a pensare alla diversità e a darle spazio, per favorire questo incontro e gestire questa problematica. Dietro ad ogni diversità ci sono soggetti con problematiche concrete, storie di sopravvivenza. Ci sono sogni, desideri, miti, ma anche diritti, ricerche della propria dignità, ricerche delle proprie identità e responsabilità.

E' per questo che noi vogliamo provarci, vogliamo dare il nostro contributo, senza scappare dalla realtà, falsificarla o semplicemente coprirla sotto il velo di atteggiamenti filantropici.
Noi vogliamo parlare delle possibilità che la storia ha, proprio partendo dalle sue diversità, proprio partendo dai suoi diritti, ma anche dalle sue risorse, quelle umane e quelle generosissime dell’ecosistema. E’ per questo che ci teniamo all’interculturalità.

Cultura, questa antica parola che viene dal latino, (dal verbo “còlere”) da un verbo che di per sé significa coltivare, attendere con cura, prendersi cura e che attraversa la differente gamma dei gesti umani: prendersi cura delle persone, di sé, della natura, delle cose (economia). Coltivare un pensiero, una educazione, cioè modi di stare in questa storia. Ma è ovvio sapere che ci sono molti stili, modi di coltivare, di prendersi cura e per questo entra questo dettaglio.

E’ uno scambio, c’è un inter…qualcosa che funge da legame, c’è uno scambio…tra…intra…fra, cioè tutto il senso di un dinamismo: provare a incontrare, a comprendere, conoscere, vedere…

L’interculturalità come metodologia di crescita tra contributi differenti, modelli differenti, nei complessi processi di crescita di noi individui e società. E’ una proposta contro ogni individualismo e anche contro ogni conformismo.

In questo senso la associazione diventa uno spazio alternativo, non sostitutivo delle istituzioni, ma propositivo, capace di individuare nuovi soggetti oltre a nuove problematiche e capace di dialogare politicamente con le istituzioni, capace di suggerire e di applicare e provare strutture differenti.

Questo è un gesto profondamente storico, cioè di chi vede i fatti, di chi osserva e diventa testimone delle cose che accadono.

Penso che oggi come oggi dobbiamo essere tutti un po’ storici, per uscire fuori dai nostri anonimati, per non lasciare che la storia sia in mano a poche persone e sempre le stesse, con le solite dinamiche di gestione, di pensiero, di azione. Ma lo storico, come dicono alcune etnie del Messico appare come un soggetto fatto di tante personcine… perché lo storico non è cultore del passato, ma del presente che a sua volta è fatto anche di passato. Essere storico dunque, è essere attenti, capaci di solidarizzare con il presente, di prendere iniziativa sul presente per non lamentarci sempre e per sentire che siamo ancora vivi e che la storia ha ancora molte cose da dire, ha ancora molte risorse, molte possibilità.

Noi dunque, oggi, molto semplicemente, vogliamo renderci disponibili a questa storia, rompere o abbandonare tutti quegli atteggiamenti che fanno la vita pesante per molte donne e uomini e per la stessa biodiversità, ricordandoci anche che esistono diversi punti di vista e ogni punto di vista è prezioso e va raccolto...

lunedì 23 giugno 2008

21/ Tessere reti - Rimini 11/04/08

Tessere reti: restituire, ricostruire, resistere.

di Antonietta Potente



Vorrei ripensare insieme la trama che tesse il titolo di questi giorni del Convegno: «Tessere reti: restituire, ricostruire, resistere».


Tornare a plasmare che tutti utilizziamo quando parliamo delle relazioni tra i popoli, continenti, culture, risorse naturali… Riaprire un discorso chiuso dove tutto passa solo e sempre attraverso l'ambito economico e del mercato, dove l'ingiustizia sembra avere solo il volto dei mercati e dei mercanti locali e internazionali. Tessere per riaprire il pensiero, le parole e la visione, sull'amore alle sapienze e alle diversità. Superare un linguaggio che oggi come oggi mi sembra divenuto troppo retorico.


Si tratta solo di una mia lettura, forse molto personale, intorno ad alcuni concetti e alcuni termini, usati nei nostri ambiti di impegno storico e che provocano in me alcune inquietudini.


Quello che propongo è soltanto un approccio, una chiave di lettura filosofica. «Tessere reti: restituire, ricostruire, resistere»: mi domando se a questi verbi, così cari nell'universo simbolico delle nostre complicità sociali, non possano esistere anche altri. Mi domando se oltre al restituire, ricostruire, resistere, non esistano altri gesti da esplorare. Ma per far questo parto ancora una volta dal contesto storico attuale e vorrei descrivere il contesto usando le eloquenti immagini di una danza: il Flamenco.


L'interpretazione è tratta dall'opera Live (la prima parte chiamata Martinete) di Joaquín Cortés. Grido, sogno, nostalgia, protesta; nomade passione di identità in ricerca.


Nostalgia, dolcezza e forza, intesa come sforzo. Frammenti di molte musiche e di molti movimenti. Nasce da un punto geografico senza arché, anarchico, ed è nomade come il desiderio e come il sogno. Qualcosa di intrattenibile, una vera e propria fuoriuscita di storia. Queste immagini si riferiscono a un canto, un grido… esplosione di una voce che segue il movimento più bello della vita, la fuoriuscita delle cose, siano esse suoni, scintille di luce, elementi della terra, frutti o esplosioni di lapilli vulcanici… desideri, parole… ma comunque e sempre fuoriuscite, perché la storia si porta avanti per queste fuoriuscite di vita, esplosioni di energie rimesse in movimento. Esplosione di un' idea, di un sogno, di un' intuizione, di un processo vitale. Non la monotona cronologica successione di avvenimenti, ma la fuoriuscita della resistenza. Perché anche questa danza, questo canto e grido, è una fuoriuscita di resistenza, no come passiva condizione di vita, ma come capacità di non farsi cacciare fuori dalla vita, succeda quel che succeda. Una mescolanza di stili di musica differenti: ingredienti orientali, indù, greci, bizantini, arabi, ebrei… Ingredienti che si sono fusi lungo la storia e sotto il sole dell' Andalusia…


I gitani, in seguito, sarebbero coloro che con spirito nomade raccolgono questi frammenti. Cultura mista, meticcia; un mistico linguaggio dei gesti del corpo e delle mani, una raccolta di gesti preziosi della vita e grido, espressione di nostalgie, pianti e lamenti, feste e gioie. Storie di dignità e storie di sfruttamento, ricerche e sempre più incessanti ricerche per arrivare al tempo della vita. Comunità clandestine, dice la storia, simboli di marginalità e disobbedienza totale. Probabilmente è per questo che comunque questa danza resta occulta e conserva toni misteriosi e io direi mistici. Soffusa dignità che viene dal basso e occupa lo spazio bellissimo della vita, anche se ufficialmente questa vita non la riconosce.


Anche il nome è curioso: Flamenco, i suoi gesti e movimenti ricordano quelli dei Fenicotteri che in castellano si chiamano Flamencos… Secondo alcuni potrebbe anche essere un gioco fonetico di una espressione arabo-spagnola «Fellah mengu» che letteralmente significa «Contadino senza terra». Per altri evoca il fuoco… Fa parte del mistero. E' comunque certo che chi sostiene il movimento e il passo, oltre agli strumenti, è il ritmo delle mani e dei piedi, insieme al grido , la fuoriuscita della voce. Nella parte che abbiamo ascoltato, è il grido di una donna… o forse della terra, dico io, visto che le parole che fuoriescono dal grido evocano la terra e la sua benedizione…Benedetta terra, terra benedetta, gridava questa donna, terra bruciata… io non so.., ma dopo la notte spunta l'alba e sorge il sole… anche la cadenza di questa certezza segue un ritmo: diviene certezza perché ripetuta, più volte.


Le conclusioni o, l'apertura verso il futuro, le affido al gioco misterioso delle parole di una canzone di Gianna Nannini: «Muro, muro». Alchemiche parole che ricordano elementi della storia quotidiana, ma che soprattutto rivendicano quel diritto che mantiene in vita la sapienza dei popoli. Segreto che raggiunge i nostri orecchi e i nostri occhi in un eco e in una luce silenziosa, evocando solo il mistero. Silenzio, segreto, aspetti così poco considerati nei difficili equilibri della pace e della giustizia. Prigione è non potersi chiudere dentro… Noi abituati al sogno di un mondo purificato, ma ancora così poco amanti di un mondo «diverso».


Mondo rifatto con i pezzi: pezzi di storia, pezzi di sapienze, pezzi di ideologia, pezzi di natura, di minerale, di risorse naturali… luce, aria, muro, ferro, pietra… Noi che parliamo sempre del presente con la nostalgia del passato, come se prima avessimo conosciuto qualcosa di totalmente bello. Come se ricordassimo il paradiso perduto e invece nessuno sa come dovrebbe essere, nessuno così come non lo seppero gli asceti del IV e V secolo, o i mistici del 1300 con le loro olistiche vite e gli idealisti illuminati e i rivoluzionari dei tempi tecnologici.


La verità non ha proprietari come il sole, l'acqua la luna, le nubi, per cui non solo bisogna difenderle dalle multinazionali, ma bisogna anche difenderle dalle grette ideologie, o dalle dogmatiche dottrine e dai facili imbrogli delle sornione politiche dei qualunquisti. Prigione è non potersi chiudere dentro… possibilità degli spazi segreti delle identità e delle dignità umane: celle interiori da cui possiamo salvaguardare i sogni e anche il futuro con la sua alternativa dei tempi. E questo, oggi, proprio oggi, tempo in cui gli individui sono dimenticati da tutti, perché massificati nell'economia e nel mercato. Potenzialità alternative ritrovate dentro, quando si scava nella storia, nella terra e anche nell'aria, graffiandola una più volte per percepire il suo vero significato e il suo contenuto. Un sapere cui soggetti sono persone concrete, individui e collettività, segreti principi attivi, capaci di alimentarsi e alimentare reazioni inaspettate di vita…


sabato 21 giugno 2008

Presentazione di "Qualcuno continua a gridare"

Venerdì 20 giugno, presso la libreria Edison di Arezzo si è svolta la presentazione del nuovo libro di Antonietta Potente, «Qualcuno continua a gridare» (la meridiana edizioni).
La onlus Ant.Er.Lux, nuovo soggetto aretino nel panorama della cooperazione internazionale, ha presentato il nuovo libro di Antonietta Potente «Qualcuno Continua a Gridare. Per una Mistica Politica».

La teologa domenicana, nata in Liguria nel 1958, da più di dieci anni ha trovato in Bolivia il perfetto equilibrio tra vita e passione. Il libro si legge tutto d’un fiato. Un libro «gridato a bassa voce», con la delicatezza e la determinazione di una donna che intende la «mistica politica» come «chiave di lettura per interpretare la postmodernità». «Ciò che accompagna armoniosamente queste riflessioni è la mistica – spiega Antonietta Potente nella prefazione del volume – qualcosa che la Chiesa si è sforzata di tenere lontano dalla quotidianità. La mistica è una trama segreta che vogliamo tornare a scoprire per sentire il calore della vita. Sono i sensi che si risvegliano provocati dalla vita, è l’alba dei sensi…quando tutto resta assolutamente in silenzio».

Il pensiero di Antonietta Potente cerca e si mette in sintonia con la ricerca dei protagonisti e delle protagoniste del racconto e poggia su una puntuale disamina della riflessione ecologica e di genere. «La mia teologia – continua la scrittrice – è una scienza solidale e complice con i narratori e le narratrici di racconti. Tutte e tutti siamo sfidati da questo: ci sono coloro che fanno teologia ufficialmente e coloro che semplicemente raccontano o semplicemente vivono, respirano, stando ‘dentro’ e nulla più. Tutti i soggetti della teologia debbono uscire da ogni schema prestabilito e seguire la vita con i suoi delicati movimenti, stare dentro di lei... non solo con il gusto di ‘servire’, ma anche di ‘toccare’: questo è il gesto mistico-politico della vita».

L’opera di Antonietta Potente si sviluppa a partire da una ricerca ermeneutica intorno alla teologia, come arte dell’etica nella storia, oltre che da un ripensamento della vita religiosa alla luce di una spiritualità ancorata al presente che unisce mistica e politica. La sua riflessione lucida e concreta la pone tra le teologhe più fertili e creative del panorama italiano e sudamericano.

All’incontro hanno partecipato: Ersilia Ferrini, presidente di Ant.Er.Lux, Antonietta Potente, scrittrice e teologa da anni impegnata nella cooperazione con la Bolivia e promotrice culturale di nt.Er.Lux, Darìa Tacachiri Villca, infermiera boliviana impegnata nella formazione di una comunità di cinquecento donne a Cochabamba, Carlo Simonetti, direttore della cooperativa Wipala, Alessandro Ciorba, medico veterinario e docente universitario presso l’Università degli Studi di Perugia.

venerdì 21 marzo 2008

Un pensiero di Antonietta

...un luna grande ci accompagna e alcune nuvole la proteggono da sguardi cuoriosi e forse possessivi. Tutto sembra riposare, ma in realtà è inquieto. La vita è precaria, come i cicli lunari, e noi esseri umani occupati a vegliare, a pensare, a raccogliere i framenti, particelle, per poter respirare con piú o meno dignità. Oggi, uno dei tanti venerdì santi del tempo, della storia, della vita, del cosmo... Mentre ti accompagno in questi giorni forse un po' retorici nell'universo simbolico della tradizione cristiana, mi affascina pensare che la vita spinge, ovunque e si cerca le sue dignitá, proprie, austere, belle.

(Antonietta Potente)

venerdì 8 febbraio 2008

Articolo da La Stampa del 6 febbraio 2008

Missionaria in Bolivia con la Liguria sempre nel cuore
di Marina Beltrame

Lo scorso dicembre il Comune le ha assegnato il premio «Pietrese dell’anno» per il suo impegno umanitario in Bolivia. Antonietta Potente, teologa nata 49 anni fa a Pietra, - «vicino al mare» come ama sottolineare - fa parte dell’Unione Suore Domenicane San Tommaso d’Aquino e da tempo vive in Bolivia, in una comunità aperta dalla sua congregazione. Una scelta di partecipazione nata durante gli anni della docenza universitaria a Roma e a Firenze, alimentata, forse, anche da una «certa inquietudine» dovuta alla percezione «che la teologia si stava pian piano chiudendo nei suoi spazi: seminari, facoltà teologiche, gruppi ecclesiali».

«Sentivo che essere teologa e fare teologia non poteva chiudermi in un ghetto di privilegiati. - racconta - Sentivo che c’erano aspetti della vita e di Dio che non avevo ancora scoperto e che era importante chiederne ad altri: ad altre culture, ad altri contesti storici, ad altre categorie di persone, soprattutto a quelle categorie ancora ‘’inedite’’ alla storia ufficiale».

«La congregazione delle Suore Domenicane di San Tommaso d’Aquino è stato un importante spazio di crescita e di intuizioni. - prosegue - Credo che ogni essere umano, quando matura nella sua affettività e nella sua capacità di pensare, diventi capace di dedicarsi alla ‘’vita’’ e nella vita ci sono gli altri, la natura con le sue risorse e anche le cose. Non considero ‘’gli altri’’ come dei ‘’bisognosi’’ che aspettano il mio aiuto, ma considero la realtà, la storia, gli avvenimenti con i loro soggetti, come veri e propri interlocutori. E’ una passione cresciuta tra i ‘’parti’’ della mia maturità umana: quelli della mia fede, delle mie ricerche e, soprattutto, dei miei incontri».

Dopo gli studi a Roma, Antonietta Potente si è occupata di pace e di giustizia: «Ho vissuto nella capitale quando nel dibattito politico si discuteva il disarmo, la presenza delle basi americane sul territorio italiano e quando nel mondo si vivevano differenti rivoluzioni, che chiamerei mistico -politiche, visto che non furono solo rivoluzioni armate: Nicaragua, Filippine, la caduta del regime dei Bianchi in Sud Africa, la Guerra del Golfo. Roma é luogo di ambasciate e questo facilitava il nostro impegno: sit-in, volantinaggi, marce, scioperi della fame di intere settimane davanti a Montecitorio. Questo non mi distraeva dal mio impegno come docente universitaria, che nel frattempo svolgevo anche a Firenze, e come lettrice e interprete del Mistero». In quegli anni conosce l’Africa (Uganda e Mozambico), frequenta il Centro interconfessionale per la pace, «punto d’incontro fondamentale per le diverse confessioni e religioni», partecipa a Budapest ad un congresso tra le diverse confessioni cristiane di tutto il mondo, dove la teologia si confronta sui temi della giustizia e della pace, conosce grandi esponenti della teologia europea (Jürgen Moltman), latino-americana (Enrique Dussel) e asiatica (Tissa Balasuriya) e interviene sul tema della pace e delle donne. «Un universo della diversità che mi affascinò. Furono esperienze che segnarono moltissimo la mia vita di giovane teologa».

La sua congregazione, già presente in America Latina, facilitò il contatto con quel continente. «Durante la prima visita rimasi in Argentina 5 mesi. Rimasi profondamente inquieta, ma anche profondamente affascinata. Fu un nuovo innamoramento e questo fece sì che si allargassero le prospettive e anche gli spazi». In seguito si trasferì in Bolivia. «Dopo i primi quattro anni, ebbi la possibilità di allargare lo spazio classico della ‘’vita religiosa’’, cioé della vita comunitaria con le altre suore. Nel ‘98 mi fu data la possibilità di fare comunità con una famiglia Aymara in una zona Quechua (Cochabamba). La mia teologia aveva bisogno di confrontarsi con un contesto vero e reale, in cui condividere tutto: i beni, l’economia, i frutti del lavoro, gli spazi nella casa. A questo nostro stare insieme demmo anche un nome: ‘’Sumaj Causay Wasy’’, la ‘’Casa del Buon Vivere’’. Ormai sono 10 anni che viviamo insieme». Alcuni membri della comunità hanno dato vita ad un progetto che coinvolge più di 300 donne e che mira, attraverso un percorso di formazione, prevenzione e presa di coscienza, a risolvere i problemi di salute di donne e bambini, a diffondere l’alfabetizzazione e a cercare fonti alternative di sussistenza economica.

(da La Stampa di mercoledì 6 febbraio 2008, cronaca di Savona, pag. 58)

lunedì 28 gennaio 2008

"Qualcuno continua a gridare"

Il nuovo libro di Antonietta Potente raccoglie tre riflessioni: sul nostro tempo postmoderno, sull’ambiente, sulla sessualità, con un unico obiettivo esplicitato nell’introduzione dalla stessa autrice «la mistica è qualcosa che la Chiesa si è sforzata di tenere lontana dalla quotidianità. La mistica è invece il gesto politico della vita». Di quella vita che passa nel destino di ognuno, perché ognuno di noi è a sua volta creatore di questo mondo.

Per cui affrontare il tema e la complessità della postmodernità, significa capire che questo è il nostro tempo, il solo e l’unico che ci è dato di vivere. Oppure parlare di gas e petrolio, di clima e armi chimiche, significa «recuperare il criterio elementare per una visione etica che è lo sguardo sulla vita concreta e sul bene comune, antico imperativo della più ancestrale biodiversità». E infine occuparsi in teologia di sessualità, non significa negarla o sublimarla nella sua rinuncia, ma ripensarla come energia creativa, data agli uomini e alle donne che vivono, perché Lui e lei possano riposare, e l’Universo possa avere un altro destino.

Un libro per scoprire e capire che «nella storia, la mistica nasce nelle società attraversate da movimenti di riforma creativa e di riscoperta di se stesse», non in quelle che si sono chiuse nel rito e nella tradizione. Forse per questo un libro che, a leggerlo, fa venire nostalgia della “sapienza”. (da Peacelink)


- Antonietta Potente, Qualcuno continua a gridare. Per una mistica politica, La meridiana, Molfetta 2008, 96 pagine, 13 euro.

lunedì 7 gennaio 2008

20/ Una spiritualità della liberazione - Torino 21/11/07

Appunti per una spiritualità della liberazione.
di Antonietta Potente


Vi ringrazio per avermi invitato a condividere queste idee e questo tema. Ascolteremo un canto latinoamericano che parla di alcuni dei temi centrali della mia riflessione. Spero, dopo il mio intervento, in uno scambio con voi e le vostre riflessioni perché questi sono temi che possono cambiare sfumature in rapporto ai contesti storici che viviamo per cui, probabilmente, io li leggi dal punto di vista dell’esperienza e del contesto storico dove vivo, che mi ispira. Voi conoscete altri contesti e potrete ritradurre questi temi nella vostra riflessione.

Corazon libre

di Rafael Amor (cantata da Mercedes Sosa)

Te han sitiado corazón y esperan tu renuncia,
los únicos vencidos corazón, son los que no luchan.
No los dejes corazón que maten la alegría,
remienda con un sueño corazón, tus alas malheridas.

No te entregues corazón libre, no te entregues.
No te entregues corazón libre, no te entregues.

Y recuerda corazón, la infancia sin fronteras,
el tacto de la vida corazón, carne de primaveras.
Se equivocan corazón, con frágiles cadenas,
más viento que raíces corazón, destrózalas y vuela.

No te entregues corazón libre, no te entregues.
No te entregues corazón libre, no te entregues.

No los oigas corazón, que sus voces no te aturdan,
serás cómplice y esclavo corazón, si es que los escuchas.
Adelante corazón, sin miedo a la derrota,
durar, no es estar vivo corazón, vivir es otra cosa.

Traduzione italiana:

Ti hanno occupato cuore e sperano nella tua rinuncia,
Gli unici vinti, o cuore, sono quelli che non lottano.
Non lasciare, o cuore che uccidano l’allegria,
ricuci con un sogno, o cuore, le tue ali ferite,.

Non ti arrendere, cuore libero, non ti arrendere.
Non ti arrendere, o cuore libero, non ti arrendere.

E ricorda l’infanzia senza frontiera.
Il tatto della vita, pelle di primavera.
Si sbagliano, o cuore, con fragili catene,
più vento che radici, distruggili e vola.

Non ascoltarli, o cuore, perché le loro voci non ti confondano,
sarai complice e schiavo, o cuore, se li ascolti.
Avanti, o cuore, senza paura e scoraggiamento,
durare non è restare vivo, vivere è un’altra cosa.


Il tema che mi avete proposto è molto ampio e difficile da trattare in pochi minuti. Cercherò, quindi, di dire qualcosa assumendo un punto di vista, un criterio di lettura, una mia ermeneutica, una mia interpretazione. Le interpretazioni possono essere tantissime e soprattutto più ci avviciniamo ai contesti storici reali e più queste provocazioni storiche ci porteranno ad interpretare questo tema anche in modi differenti.

Vorrei riprendere questi due grandi blocchi, queste due grandi parole, che poi sono parti molto importanti della nostra storia. Il tema della spiritualità e anche il tema della liberazione. Anche se credo che questi due temi vadano compresi insieme, essi infatti non sono due temi separati, probabilmente parlando di uno scopriamo anche l’altro. Ciascuno di questi due temi coinvolge la storia, la vita, gli individui, i popoli, le culture, e anche – come vedremo – la stessa creazione.

Per questo è necessario scegliere un punto di vista, per far sì che questi temi non siano solo retorica. In modo da non tradire i contesti concreti della nostra vita e della vita degli altri. Da parte mia non vorrei perdere nessun dettaglio, nessuna sfumatura che questi temi ci offrono, che la storia ci offre.

Riferendomi al contesto in cui io mi muovo normalmente potrei parlare utilizzando questi due grandi termini, spiritualità e liberazione, con una metodologia o con un’ermeneutica specifica della spiritualità e della teologia della liberazione. Per affrontare la vastità di questo tema volutamente scelgo una lettura esistenziale.

Se abbiamo un diritto a parlare di spiritualità e di liberazione è perché viviamo ed è perché la storia vive, i popoli vivono, le culture vivono. In questa storia esistenziale ci stiamo tutti: c’è la storia di noi come individui, con tutte queste sottili vivenze storiche, con tutte queste vite che si intrecciano; c’è tutta la parte della nostra vita che è la vita politica, affettiva, sociale, le nostre lotte per poter continuare a vivere in questa società; e poi le esistenze dei nostri popoli, dei contesti socio-politici che senza saperlo ci segnano profondamente.

Parlare di questi temi dal punto di vista esistenziale non risolve la vastità del problema. Lascio però il problema aperto, volutamente. Mi sembra importante scoprire fin dove vogliamo parlare di queste cose, e anche scoprire perché vogliamo parlarne. Qual è il nostro interesse, le nostre inquietudini che ci provocano ancore l’interesse a parlare di spiritualità, e di spiritualità della liberazione.

Quasi sempre i grandi temi della vita non nascono dalle teorie, ma nascono dalle esperienze, da questi contatti reali con la storia, per cui se voi avete scelto queste problematiche è perché probabilmente la vostra esperienza con la storia attuale vi porta a domandarvi di queste cose. Per lasciare questa possibilità di intervento, per fa sì che ciascuno si senta invitato ad intervenire sul tema e a fare la propria ermeneutica vorrei soffermarmi su quella che è un po’ la storia di questi due elementi: spiritualità e liberazione.

La spiritualità, così come la liberazione, ha una storia, un punto di inizio. Dietro alla spiritualità c’è tutta la vitalità dello Spirito e dietro alla liberazione c’è tutto il sogno della libertà. Certamente questi due temi, spirito-spiritualità e libertà-liberazione, evocano delle inquietudini, probabilmente dovremmo dirci cosa intendiamo con essi. Questi aspetti li cogliamo dai parti storici, dalle dinamiche della vita, dell’umanità, della creazione e credo che per trattare questi temi il primo passo è uscire da tutti i pregiudizi ideologici, istituzionali; che chiudono i temi, e li confinano solo ad alcune appartenenze. Cioè si pensa che la spiritualità appartenga solo alle religioni, e la liberazione, da un punto di vista anche soteriologico, appartenga solo a questi grandi messaggi delle religioni: qui si chiude il discorso. Bisogna uscire da questi criteri puramente ideologici, dai pregiudizi, essi infatti non appartengono solo a certe categorie, questi sono temi sono terribilmente laici: appartengono ai popoli, a tutte le culture, a tutte le persone e i gruppi umani che ancora cercano e che devono affrontare la vita. Questa è una premessa importantissima. Spiritualità e liberazione non sono solo i temi dei credenti, della fede, ma sono i temi storici dove dall’esperienza di fede, dall’appartenenza ad una comunità credente può nascere una certa interpretazione, però non sono temi di proprietà privata di nessuno in questa storia. Probabilmente proprio in questo consiste la difficoltà, perché quando noi li consideriamo di proprietà privata di alcune ideologie e di alcune esperienze religiose già chiudiamo il discorso. Trattare questa problematica diventa, così, ancora più difficile.

Si tratta di inquietudini storiche che appartengono all’umanità e al cosmo, che fanno parta della storia senza distinzioni di appartenenze, appartenenze che hanno solo avuto la funzione di interpretare e di dare dei contributi su queste problematiche. Però nessuna appartenenza può dire tutto nella storia. Come non mai, nella storia attuale, postmoderna, questi due temi rivendicano la propria laicità. E in questo senso lo Spirito non evoca solo ciò che è religioso, ma evoca realmente ciò che è storico e umano oltre che cosmico. Lo Spirito evoca tutta l’inquietudine della realtà, la sfida di oggi è: come raccogliere queste inquietudini nelle nostre storie, anche personali? Sono due temi che invitano gli individui ad allargare la mentalità, ci chiedono di aprirci, di salire, di uscire dalle nostre semplici problematiche individualistiche. Proprio la spiritualità nasce come critica, o come sospetto, alla morale, come diceva anche Nietzsche, intesa come un’origine a priori della storia. La spiritualità, quando nelle società e nelle culture comincia a farsi spazio, o rivendica uno spazio, o spinge, è perché nasce come una critica alla dottrina e alla morale che si impone come unica origine del comportamento umano, come qualcosa che sta a priori e che l’essere umano deve imparare.

Se ripercorriamo la storia questo è avvenuto tantissime volte, tutte le volte che dei gruppi umani rivendicano lo spirito, non solo nelle istituzioni religiose ma anche nelle istituzioni sociali e politiche. Questo avviene perché rivendicano il diritto alla dignità. Un aspetto questo importantissimo, che abbiamo visto già in altri momenti storici, e credo che in questo momento storico stia avvenendo lo stesso. Questo bisogno di ricuperare l’interiorità intesa, non come intimismo, ma come spazio dove l’essere umano ri-crea qualcosa, e si sente a casa. Questo è tipico del nostro mondo e nasce lì dove incominciamo a sospettare un po’ di questi a priori che esistono o che ci fanno pensare che esistono prima di noi.

Se seguissimo quest’eco storico arriveremmo a riscoprire l’eco delle Scritture. Quando diciamo che noi non vogliamo appropriarci di questi temi solo come i temi delle religioni o delle fedi, in realtà affermiamo che se riuscissimo davvero a riscoprire l’umano di questi temi, l’inquietudine di questi temi nella storia, arriveremo a capire in modo differente le religioni. Per cui non è dimenticarci delle religioni, o dimenticarci dell’umano, per riscoprire la vera spiritualità, ma anzi, riscoprendo, entrando sempre di più in questo umano più quotidiano, arriviamo a reinterpretare le Scritture.

Probabilmente questa era stata la metodologia della spiritualità della liberazione in America Latina. Il contesto storico così forte portava la teologia a reinterpretare le Scritture, la tradizione e la dottrina. Un itinerario profondamente interessante che non mette la laicità contro la religione ma che mette queste due grandi sensibilità alla pari. Il problema è che noi invece, non vogliamo stare alla pari: vogliamo che la religione abbia il sopravvento sulla laicità, ma questo è falso perché se davvero la storia riuscisse a fare il percorso della laicità, dell’umanità, della creazione, come è avvenuto in altre culture o in altri momenti storici, si arriverebbe alla spiritualità più profonda, all’anima della religiosità, ma noi ci muoviamo sempre in queste grandi diffidenze o sospetti.

Dal punto di vista teologico nelle Scritture c’è stato un itinerario. Purtroppo nella dottrina, soprattutto nella teologia occidentale, siamo arrivati a personalizzare troppo lo Spirito, a ipostatizzare, a considerarlo come persona divina e abbiamo saltato tutto questo itinerario di avvicinamento e di comprensione alla realtà storica e a tutta la realtà cosmica, non solo degli esseri umani, ma di tutto il cosmo. Questo Spirito identificato come persona divina, prima di tutto era identificato come la respirazione di Dio (Esodo 15,10), o come una presenza che agitava gli alberi, che scuote e trascina il grano (Isaia), una presenza cosmica ma anche una presenza nell’antropologia umana, una aspirazione della vita, che se si perde e abbandona la storia muore (Sal 78, 104). Il principio di questo Spirito, anche nelle Scritture, sfugge. Questo aspetto è bellissimo, quando si dice che “non si sa da dove viene e dove va”, diremmo che questa qualità dello Spirito ci protegge da ogni arroganza, da ogni indottrinamento, da ogni moralismo, perché ci sfugge il principio (l’arché) e ci sospinge più lontano, probabilmente ci da il gusto della liberazione come solidarietà tra Dio e la storia.

Questa solidarietà le Scritture la identificano con il Verbo, dicendo che lo Spirito, semplicemente, abita la storia. Ed è per questo che la storia, anche nell’esperienza delle comunità cristiane, diventa avvenimento, non solo una piatta ricorrenza cronologica, ma un avvenimento.

Il poeta messicano, premio nobel per la letteratura nel 1991, Octavio Paz parlava di un presente che si muove tra evoluzione, rivoluzione e rivelazione. Questa è la storia secondo lo Spirito: un processo evolutivo dove noi riconosciamo nella storia la sua autonomia, i suoi dinamismi interiori, segreti, invisibili; dove riconosciamo queste iniziative che irrompono nella storia. La rivoluzione intesa, non solo come dinamismo storico di rottura, ma come la capacità dell’umanità, dei popoli, della mente umana, nella sua inquietudine di rivoltare le cose, rivoluzionarle e darle un’altra posizione dentro la storia. Questi due elementi, l’evoluzione e la rivoluzione, che nella prospettiva dei credenti non sono dei momenti qualunque ma sono momenti rivelativi, con tutto quello che questo termine significa, che non è la chiarezza delle cose e degli avvenimenti ma è, probabilmente, una scintilla di luce che poi torna di nuovo a coprirsi nella quotidianità della storia; che porta noi esseri umani a stare attenti a questa realtà e a non tradirla, non smettere di stare in questa vigilanza costante che poi è l’atteggiamento che ci piacerebbe tanto avere: l’atteggiamento profetico, ovvero la capacità di guardare costantemente la storia, di leggerla, ed entrare in queste rivoluzioni ed evoluzioni storiche per poter vedere la storia in un altro modo, in questa dialettica tra laicità e religione, scoprendo misticamente dei lineamenti differenti del mistero.

Probabilmente quello che noi non riusciamo a fare nella storia, che la teologia non riesce a restituire all’umanità, ai popoli e alle persone comuni, è precisamente questo desiderio di ritrovare l’iniziativa e quindi di avvicinarsi, questo osare avvicinarsi alla storia con sempre più creatività. Da troppo tempo abbiamo diviso la storia dal mistero in una dicotomia così assoluta per cui il mistero segue il suo cammino e la storia segue un altro cammino e questo ci rende quasi come immaturi, o ci fa sentire tali, di fronte a tutto quello che questo mistero ci vorrebbe dire. Siamo diffidenti di fronte al mistero e non prendiamo l’iniziativa. Abbiamo paura, un certo tipo di morale, un certo tipo di dottrina ci hanno marcato e segnato con la paura, dicendoci che il mistero non si può toccare.

Questo si deve anche ad un ermeneutica particolare, perché la teologia è sempre stata fatta da delle persone con un ruolo particolare nella comunità credente. La sacerdotalità della teologia, che ha bisogno di mediatori, questo non è parte della spiritualità. La spiritualità restituisce questa iniziativa agli esseri umani, e dice loro che si possono avvicinare al mistero. Sentiamo il Vangelo così vivo spiritualmente perché i gesti di Gesù, il suo modo di vita, ci fa pensare che il mistero si è avvicinato alla storia e che quindi rimette in movimento tra i suoi contemporanei questa speranza di poter toccare il mistero. Ma poi lungo la storia, tante volte, noi ci siamo di nuovo riappropriati del mistero: la teologia, certe categorie di persone addette ai lavori nell’ambito della comunità credente, si sono appropriate di questo mistero e ancora una volta noi rimaniamo attoniti.

A volte parlando con alcune persone in America Latina ti senti dire: “tu sei suora, tu sei prete, voi siete più vicini a Dio”, questo discorso è solo un discorso di ruoli, che è stato portato avanti nella società e non solo negli ambiti semplici. C’è stata tutta una dottrina che ha costruito questo tipo di immagine secondo cui il mistero non si può toccare, eppure anche noi, in una religione come la nostra, dove il mistero dell’incarnazione aveva cercato di rompere questo schema, siamo ritornati di nuovo a questa prospettiva. Non osiamo prendere iniziativa nella storia. E se non prendiamo iniziativa con il mistero finiamo per non prendere iniziativa neanche nella storia. La passività con Dio è anche la passività etica nei momenti storici più importanti. Le istituzioni religiose e politiche fanno di tutto affinché non si prenda iniziativa. Anche in queste grandi ideologie politiche e sociali, che ci potevano dare delle ispirazioni, quando cominciano a diventare ideologie a priori, che sanno già tutto... Sartre aveva intuito che alcune ideologie fondamentali potevano aiutare la storia, però quando incominciò a vedere che anche queste ideologie davano tutto per scontato e dettavano tutto a priori e gli altri dovevano solamente obbedire, cominciò a diventare critico.

In questo momento storico c’è bisogno di riscoprire questa spiritualità della liberazione nel senso del poter, un’altra volta, allargare gli spazi. Questo noi lo possiamo fare, la teologia lo può fare, se restituisce una nuova immagine del mistero che non è lontano. Nessuno può dire che io non mi posso avvicinare o che non posso interpretare o prendere questa iniziativa nella storia, nella realtà.

Nell’ambito della prospettiva occidentale è stato fatto un danno abbastanza grave, cosa che forse nella prospettiva teologica dell’oriente cristiano è stato meno incidente, la teologia occidentale ha reso tutta la riflessione troppo antropocentrica, il Cristo antropos, specchio dell’essere umano, questo ha atrofizzato tutto il resto, l’iniziativa per poter scoprire Dio anche in un altro modo. La tradizione orientale, invece, ha lasciato più spazio al Cristo cosmico per cui la contemplazione si potrebbe dare passando per la natura, per gli elementi segreti della natura. Noi dobbiamo recuperare questo aspetto. Una volta silenziato lo Spirito si è silenziata la storia. Le possibilità alternative che le storia ha, si è silenziato il mistero perché tutte le volte che noi sappiamo tutto si chiude qualcosa per cui non possiamo continuare in questo senso restando solo tra di noi nella realtà.

Adesso credo che quello che ci insegna, o ci evoca lo Spirito lungo le comprensioni storiche e anche lungo la tradizione scritta, la tradizione biblica, credo che quello che lo spirito insegna è, come dice Paolo, la diversità, il mistero degli altri, il mistero dell’alterità. Ma ci insegna anche il segreto, il silenzio degli avvenimenti, ci insegna ad assicurare la libertà degli esseri umani, degli animali, degli elementi fisici e chimici e ci insegna la ricerca, il discernimento, le scelte, il linguaggio alternativo.

Lo Spirito ci insegna il linguaggio del genere, il linguaggio interculturale, interreligioso, l’esigenza di rendere le azioni nuove in tutti gli ambiti storici. Lo Spirito ci insegna dei tentativi di vita, ci sveglia, sono tentativi etico-mistici dove impariamo a stare nella storia. Nella tradizione ebraica un leggenda dice che nella creazione l’essere umano aveva solo un compito, doveva compiere solo una fatica: imparare a conoscere le piante e gli animali. La spiritualità è questo compito, è questa fatica: imparare a conoscere per poter imparare ad abitare nella storia. È un compito, una fatica che dura nel tempo, non è una cosa che si impara una volta per tutte, o che diventa un modo di vita dettato da certe norme. Si impara nelle relazioni, ascoltando e ricercando costantemente il mistero, nella vicinanza con l’umanità. La spiritualità della liberazione io la leggo, soprattutto in questo momento, come la rivendicazione più bella dei diritti delle persone, delle cose, del cosmo.

19/ L'incontro con le sapienze di altre culture - Mosaico di Pace 14/11/07

L'incontro con le sapienze di altre culture

di Antonietta Potente


Giorgio Piacentini.

Abbiamo la gioia di incontrare ancora una volta Antonietta. Quando passa dall’Italia come una meteora il Cipax l’afferra al volo e la porta qui. In realtà lei ci vuole bene e viene molto volentieri ad accompagnarci nella nostra strada e noi accompagniamo lei, in vari modi, nella sua strada in Bolivia. Solo due parole per dire come il tema di questa sera ha a che fare con il nostro ciclo. L’incontro con le sapienze di altre culture. Antonietta su questo è una maestra. Credo che non ci sia libro o intervento in cui lei non parla della sabiduria, della sapienza di altre culture. Il sottotitolo quest’anno è la storia, la spiritualità, la vita quotidiana dei cristiani d’oriente che sono una compagine crescente in Italia, per via dell’immigrazione. Una serie di confessioni che credo noi conosciamo ben poco. Solo gli specialisti conoscono gli aspetti di questa spiritualità. Come mai Antonietta ci parla dell’insufficienza del linguaggio di fronte al mistero? Noi non l’abbiamo scritto nel manifestino, ma questo è un richiamo alla teologia cosiddetta apofatica, una teologia che non dice, che non può dire, nata nell’ambito dell’Oriente Ortodosso. Antonietta ci parlerà di questa teologia alla sua maniera, forse con un approccio più politico che teorico. Lei farà un intervento di una mezzora: poi ci saranno cinque -dieci minuti in cui potrete parlare fra di voi, per mettere a punto le vostre reazioni su quello che ha detto e passare alle domande.

ANTONIETTA POTENTE

Buona sera a tutti e a tutte. Prima di entrare nel tema vorrei trattare la metodologia dell’intervento. Dato che parleremo di linguaggio, di insufficienza del linguaggio e a volte anche dell’arroganza del linguaggio, utilizzeremo un metodologia articolata, con parole, canzoni e immagini, perché io credo che faccia parte della sapienza della vita di ogni essere umano l’uso di tutti questi linguaggi. Purtroppo noi siamo abituati allo schema che il linguaggio deve essere in un certo modo, dobbiamo esprimerci con certi criteri. La storia che sta cercando di andare avanti in un altro modo ha bisogno di scoprire altri linguaggi. Nell’ambito, non solo della teologia, ma anche della vita più quotidiana, c’è il linguaggio visuale (non mi riferisco in questo caso alla tecnologia, ma alla contemplazione, alla capacità di leggere e guardare la storia in un altro modo), il linguaggio dei suoni; ci sono le immagini storiche, cioè reali, che fanno parte della nostra vita; il linguaggio della poesia, i canti e le canzoni sono sempre più simili ai poemi. Questa sera vi invito a far memoria di tutti questi linguaggi, anche della potenzialità del linguaggio del silenzio, non certo inteso come passività, ma come linguaggio che propone o che critica una certa lettura della realtà. In Italia le parole già non criticano più e c’è bisogno di trovare altri linguaggio.Inserisco questo tema nel cammino che state facendo, nell’ascolto di altre sapienze.

Sento che le mie riflessioni girano intorno a preoccupazioni che vanno molto al di là del dialogo interreligioso ufficiale. Credo che i contributi a questa storia non venga più fatto dalle istituzioni ufficiali, che invece stanno indebolendo il linguaggio. Lo stanno privando di quel potenziale che per l’umanità significava riprendere la parola. Sapete che leggere e scrivere è qualcosa di profondamente importante. Ma son sempre gli stessi quelli che parlano. Il linguaggio si sta indebolendo perché le istituzioni lo usano per farci tacere o per farci dire quello che dicono loro. La necessità di trovare altri linguaggi storici è un impegno etico. La necessitò di riprende in mano le nostre storie non secondo quello che ci dettano gli altri, ma secondo quello che anche noi riusciamo a capire dalla nostre contemplazioni, dalle nostre esperienze. Dobbiamo appropriarci di questi linguaggi in altri ambiti.

Ma parliamo ora di questa strana parola, la teologia apofatica: è un termine che viene dal greco e indica la negazione, il non volere dire tutto su tutto e neanche su Dio. Non dobbiamo lasciare che questi temi siano di proprietà propria solo di alcune categorie di persone o di alcuni spazi.

Io non vi posso parlare della sapienza della chiesa orientale, ma vi posso dire che nel mondo questa sapienza così rispettosa della vita, ma anche così resistente e capace di ricreare la storia, non appartiene solo alla Chiesa orientale, ma appartiene a tutti gli uomini e a tutte le donne che stanno cercando delle strade alternative, e che sono critici di fronte a questo linguaggio che è già diventato così vecchio e così antico.

Se dovessi utilizzare come un sintesi biblica, evangelica, nel mio ambito di riflessione teologica, per descrivere che cosa ci interessa capire delle sapienze, della vita e della storia degli altri, della storia della creazione utilizzerei un versetto del vangelo di Matteo (1^ immagine). E’ una domanda che fa attraverso i suoi discepoli Giovanni Battista, una persona molto inquieta, a Gesù: Sei tu colui che deve venire o dobbiamo aspettare un altro?

Ho scelto una fotografia reale. E’ un’immagine eloquente che ci mette di fronte a questa inquietudine. Noi non vogliamo parlare di un tema, noi vogliamo capire che cosa dobbiamo fare in questa storia per terminare con certi atteggiamenti e con certe barbarie di ideologie, di modi di vita, di mancanza di rispetto per la dignità degli altri, per le intuizioni, per i piccoli o grandi sforzi di questi parti storici che altri fanno. La bambina della foto è profondamente stupita. Credo che questa domanda è una domanda che accompagna l’essere umano: da piccoli a grandi cambiamo la Storia quando impariamo a stupirci, con uno stupore contemplativo, come direbbero anche gli orientali, che nasce perché vediamo ed ascoltiamo. Guardiamo quest’immagine in silenzio ed ascoltiamo un canto che ci ispira questa volontà di capire la storia in un altro modo.

Nell’aria c’è una voglia in me

Qualcosa che non so cos’è.

Mi piace si stare con me

Guardarmi dentro, scoprire che….

Vorrei che facessimo attenzione a questa frase aperta. La domanda gira intorno a qualcuno e a qualcosa. C’è da cercare dove stanno e a chi girano intorno le nostre domande, che possono essere domande religiose, di fede, ma che sono sempre domande profondamente storiche, mistiche, di incontro profondo con la realtà. Sei tu o dobbiamo aspettare? In questi sei tu credo che sta tutta la nostra ricerca. Sei tu popolo differente, sei tu genere differente, sei tu la natura che sei profondamente differente da tutto quello che è costruito attorno a te. Vi invito a dare un nome a questo sei tu, ed anche a dare tutta questa ampiezza, grande respiro al verbo aspettare. Credo che aspettare non sia mai un atteggiamento passivo. Quando parliamo di una ricerca che sa di essere profondamente limitata parliamo di un atteggiamento molto creativo. Aspettare svegli, per vedere se davvero arriva qualcuno. Se posso riconoscere qualcuno. E questa domanda resta profondamente aperta. E’ vero che nella storia della riflessione teologica delle chiese questa caratteristica di non volere dire tutto sul mistero o di essere consapevoli di non potere dire tutto sul mistero ci viene dalla tradizione orientale. La tradizione occidentale ha voluto appropriarsi degli altri, per cui si è voluta appropriare anche di Dio. Quando invochiamo questa insufficienza del linguaggio nell’ambito della metodologia teologica certamente dobbiamo risalire a questa tradizione orientale. Questa sensibilità però non appartiene a una geografia, ma alla storia di donne e uomini che hanno un contatto con la vita reale, che non immaginano la vita, ma la fanno. Dico questo per esperienza e perché nella stessa teologia ad esempio latino-americana questo tipo di sensibilità è sempre stato molto presente. La voglia di non dire tutto su Dio, perché la storia possa riprendere la parola e possa ritrovare il suo linguaggio.

Ripensavo ad un testo molto bello di qualche anno fa di Gustavo Gutierrez, dal titolo: come parlare di Dio, partendo dalla sofferenza dell’innocente. Era un commento al libro di Giobbe. Gustavo stava ancora in Perù ed erano gli anni di una grande sofferenza del continente latinoamericano e caribeño. Nella introduzione citava questo tipo di metodologia e diceva che per fare una teologia della storia dove davvero si potesse riscattare tutta questa passione storica e riconoscere dei soggetti storici come veri teologi e teologhe bisognava accettare questa insufficienza del linguaggio, altrimenti questa sensibilità che a volte abbiamo verso la storia diventa una sensibilità profondamente arrogante. A volte vogliamo aiutare la storia, ma la vogliamo aiutare secondo il nostro linguaggio e togliamo tutto questo stupore: e se ti dovessi aspettare?Sei tu? ma anche chi sei tu?.

Passiamo alla seconda immagine: è per ricordarci l’insufficienza delle parole, che forse è ancora più forte dell’insufficienza del linguaggio. L’immagine ha molta ombra perché l’insufficienza non mette tutto in luce. L’insufficienza delle parole non è solo un criterio teorico. Ci sono delle situazioni storiche che diventano silenziose. Ma parlano con i corpi delle persone, come i corpi si muovono nella realtà, e diventano eloquenti. Noi che osserviamo dobbiamo ammettere che questi silenzi sono i nuovi linguaggi. Nella storia ci sono dei linguaggi silenziosi, ma anche dei linguaggi che vogliamo rendere silenziosi per permettere che parlino ad altre persone. In questo momento storico nell’ambito politico e nell’ambito ecclesiale sono molto poche le realtà dove si vuole lasciare lo spazio perché gli altri ritornino a parlare secondo i loro criteri e secondo i loro linguaggi.

La terza immagine mostra uno schema dell’alfabeto tuaregh.

Una volta avevo letto che i tuareg hanno forme di scrittura ed anche un modo di organizzare il linguaggio molto difficile, perché si basa di più sui suoni delle consonanti, che delle vocali. Per cui puoi entrare da più parti in questo linguaggio (da destra, da sinistra, in diagonale, in verticale) e devi stare profondamente attento. Questo mi aveva affascinato. Pensavo che quello che noi dobbiamo fare nella storia è lasciare tutte le infinite possibilità agli esseri umani, ai popoli, alle culture ed anche alla natura di esprimersi secondo il proprio linguaggio. Quello che dobbiamo chiedere oggi alle nostre politiche, alle nostre cosmovisioni occidentali, ai nostri mondi religiosi (penso nel mondo delle chiese, delle religioni) è lasciare che altri parlino con il loro linguaggio e che scrivano con i caratteri della propria lingua, con questa possibilità di rivelare in un altro modo la storia.

Ho partecipato a questo festival dei popoli, delle culture delle religioni a Terni. Ero in una tavola rotonda sul dialogo interreligioso, per vedere come le religioni partecipano a questo impegno per la libertà e per i diritti civili. Mi era sembrato molto bello che si chiedesse alle religioni di partecipare, di pensare ai diritti civili, ma poi ascoltando e pensando, mi sembrava che abbiamo una tentazione: apparteniamo già a degli schemi e ritorniamo sempre sulle stesse cose. L’unico criterio è quello che già sappiamo e invece in questo momento storico, per cambiare la storia ci dobbiamo muovere con quella domanda iniziale o con questo stupore davanti a questo alfabeto tuareg. A noi sembrano disegnini, ma sono forme di espressione che fanno la storia. Quando qualcuno scrive con questi caratteri, descrive qualcosa della sua storia o pensa il futuro nella storia. I nostri contesti devono rischiare un po’ per rimanere in silenzio e stupiti di fronte a quello che non capiscono e lasciare che quello che non capiscono sia il nuovo linguaggio. Non mi riferisco solo a queste attitudini ed a questi atteggiamenti un po’ superficiali: tutto va bene, accogliamo, non accogliamo e discutiamo su chi ha ragione, se gli stranieri devono starci o non starci, e lo facciamo con molta superficialità. Io parlo di un criterio di giudizio storico, politico, religioso per ripensare il futuro e questo criterio deve essere sapiente, intelligente. Non è l’atteggiamento qualunquista o superficiale di chi dice: ma a me non è mai successo niente e quindi che vengano pure tutti. Oggi è molto importante essere sapienti su queste cose. Ogni volta che torno in Italia quello che mi stupisce è la mancanza di sapienza nella nostra politica. Ci fosse qualcuno che ha un po’ di buonsenso, che voglia ascoltare gli altri o voglia rileggere la storia. Tutti ci muoviamo (e possiamo dirlo anche delle nostre chiese) con quello che già sappiamo. Non c’è questa voglia di trovare anche in questo silenzio la creatività di una storia futura. Probabilmente ci dobbiamo mettere tutti insieme. A Terni eravamo tutti rappresentanti di gruppi religiosi; l’unica che non rappresentavo ero io. Mi colpiva una cosa. Credo che di fronte al sogno storico: di fronte ai diritti civili, alla libertà, ai temi della necessità di considerare le differenze dei generi che abitano questa storia, alle risorse naturali, ecc.ecc. non c’è una religione che possa dire: io scaglio la prima pietra. Tutte le religioni, ancorate al passato, hanno sempre, sempre pensato che loro avevano qualcosa di più da dire agli altri. L’aspetto più bello è ricostruire questa storia con i pezzi di tutti.

La quarta immagine. Nessuno ha il pezzo completo e dobbiamo vedere quale pezzo mi tocca e come lo metto in un puzzle. Si tratta di ricomporre e non di inventare. L’insufficienza del linguaggio e la consapevolezza che noi non possiamo sapere tutto, non abbiamo tutte le certezze sulla verità, ci potrebbero probabilmente aiutare a ricomporre. Qui non è il gioco della complementarietà. Ogni pezzo ha la sua forma, che è enormemente importante. Noi pensiamo che quella forma è l’unica e non riusciamo a guardare il presente e, di conseguenza non guardiano più il futuro. Risolviamo tutto con gli occhi del passato, con quello che già sappiamo, che ci ha accompagnato finora: può essere importantissimo, ma non è più il linguaggio sufficiente in questo momento. Penso alle nostre grandi ideologie o ai nostri grandi ideali o sogni religiosi. Bisogna imparare da questa domanda: sei tu o devo aspettare un altro?

Ci sono situazioni storiche che denunciano tutto questo. Ci sono delle posizioni dell’essere umano e della natura nella storia che denunciano e reclamano un altro atteggiamento. Io non so perché le religioni, la nostra chiesa non riesce a contemplare la realtà in un altro modo. Forse perché siamo troppo sicuri o perché siamo spaventati. Sento che noi siamo fermi e non riusciamo più a leggere le posizioni che questa storia prende e che gridano di per sé anche quando le parole sono insufficienti.

Ancora un’immagine, ma da guardare in silenzio ascoltando un canto latino americano.

E’ una fotografia che testimonia la tortura. Noi sappiamo che nella storia ci sono diversi tipi di tortura. La tortura è l’arroganza del linguaggio, non è solamente il gesto fisico dell’altro. E’ anche l’arroganza del linguaggio e la certezza che l’altro non serve, per cui bisogna eliminarlo, bisogna colpirlo nelle parti più vere della sua identità. La tortura sulle donne, la tortura ideologica su tutto l’essere umano. Sistemi dittatoriali. Torture nate nell’ambito delle religioni: questi pregiudizi e questi sospetti che si sono dati lungo la storia. I pregiudizi nascono sempre da quello che già sappiamo, non nascono mai da quello che non sappiamo.

Foto..

Ci sono torture che l’essere umano provoca nella storia per potersi difendere o per poter attirare tutta l’attenzione su di sé. Dall’esperienza del popolo dove vivo io, ci sono state per secoli torture sulla natura. Tutto il dominio su questi Paesi delle grandi catene multinazionali, sulle nostre risorse naturali sono state torture che si sono prolungate. Le torture sono state anche sul popolo, ma prima sulla natura: comprare la natura per poter poi comprare le ideologie, le speranze, i sogni dei popoli. A parte di ciò che conosciamo di questo mondo così egocentrico, dobbiamo intuire che questa storia continua a sognare con altri progetti di vita e vuole terminare con questi linguaggi arroganti sulle cose, sulle persone e soprattutto con questo togliere la parola. Tutte le torture tolgono la parola. Tutte. Chi resiste alla tortura non vuole fare nomi. Fai di tutto per colpire la sua memoria, come se questa persona restasse sola, invece era profondamente solidale con altra gente. Se avete letto le ultime cronache delle torture in Argentina (sono usciti vari libri, anche tradotti in italiano). Mi colpisce sempre pensare questo che chi tortura toglie la parola e allora l’unica realtà che parla è il corpo, è la posizione di questo corpo.

Foto. Questa è una posizione.

In questa storia noi dobbiamo cominciare a ripensare il nostro futuro guardando le posizioni del nostro corpo, di quello degli altri. Se ci sono posizioni comode o non tanto comode,che possono essere raccontate quando uno si sveglia o se saranno posizioni che ci mandano avanti silenziosamente.

Io credo che c’è ancora un modo nella storia per ricrearci.

Canzone. Non tutto è perduto. Io vengo a offrire il mio cuore. Intendendo per cuore la possibilità di una vita differente.

Il messaggio principale è quello di offrire qualcosa a questa vita. I vari pezzi, con il loro linguaggio differente, con la loro sensibilità differente, sono estremamente importanti. Dobbiamo imparare a metterli insieme nella storia. Io credo che è ancora possibile. Quando guardiamo la drammaticità della storia dobbiamo ammettere che bisogna reinventarla, bisogna ritrovare tutti questi criteri che non possono uscire solo da noi. L’aspetto positivo della postmodernità che tanto critichiamo (e che io non riesco a criticare totalmente,forse per superficialità o non riesco a vederla in tutte le sue componenti) è questo:tutto questo movimento storico della sopravvivenza ha dei linguaggi che suggeriscono delle soluzioni.

Il primo aspetto che dobbiamo imparare a considerare è che dobbiamo imparare a vivere insieme. Questo è l’unico aspetto importante oggi. Aspetti importanti non sono più l’etica della perfezione, l’etica dell’appartenenza a determinati gruppi, ma è importante imparare a vivere insieme a riprendere queste posizioni degne nella nostra storia, con la storia degli altri, uomini e donne, in questa realtà. Per far questo, l’avvicinamento al mistero evoca tutto questo. C’è sempre più sintonia tra il pensare Dio e il pensare la storia. Credo che chi pensa che pensare Dio è solo pensare Dio,non riesce a cavare un ragno dal buco. E’ molto pericoloso, ma soprattutto assurdo pensare a differenze: questo ha fede, questo non ha fede e così via. Io parlo dalla mia prospettiva di fede. Se c’è qualcosa che mi evoca l’alterità, la diversità, il desiderio di unirmi alla vita, che sia la vita umana, del cosmo, è proprio Dio.

E’ questa realtà di cui posso solamente balbettare alcuni nomi. Dare il nome è solamente delineare o scoprire alcune orme dentro la storia. Per cui oggi essere credenti non è contrapporsi ai non credenti. O essere non credenti contrapporsi ai credenti. Credo che questi parti storici sono belli quando ad essi si avvicinano tutte le persone che cercano, che poi cerchino Dio o come riuscire a mangiare in modo degno o cerchino un principio attivo o un pianeta o una parte di un pianeta che può diventare significativo per la vita umana, tutte questo cose sono preziosissime. Quello che invece non serve, e che creano sempre di più queste contrapposizioni, sono le appartenenze troppo certe. Dobbiamo difendere quello che ci ha fatto nascere….Ma quello che ci ha fatto nascere, già ci ha fatto nascere. Adesso dobbiamo “rinascere”. E per rinascere abbiamo bisogno di tutte le particelle storiche, non storiche della natura e del cosmo. Per cui continuo a pensare che questo è profondamente positivo nella nostra storia e bisogna operare. La fede diventa anche questo sogno politico di una realtà differente. Passare ore per capire che cosa vuol dire un altro, come si esprime o i gesti di un altro, credo che è passare delle ore intorno alla sapienza, e quindi intono al mistero.

Adesso condividiamo un po’ di discussione tra di noi.

Piacentini.

In questo nuovo modo di intendere il linguaggio, come possiamo utilizzare il linguaggio delle Scritture? Anche qui ci può essere un modo nuovo di assimilare queste Scritture che scendono su di noi come una pioggia leggera e continuano a fecondare la nostra vita.

Claudio.

Sento che fare una ricerca personale di nuovi linguaggi ed esplorare nuove strade è più facile a livello personale che a livello di gruppo o di comunità. La comunità si dà certe regole che però rappresentano anche un ostacolo.

Cesare.

Io non ho domande, ho solo proposte. (risate) Volevo solo dire che sto vivendo l’esperienza della meditazione silenziosa. Le parole hanno creato solo problemi. Cerchiamo un’altra strada, quella del silenzio. Non è molto che sto cercando di vivere questa esperienza. Ma intravedo in qualche momento, mi sembra che la mia testa (abbandono le parole, abbandono i concetti) sia più libera.

Marco

A proposito di quel giudizio ottimistico che hai dato sulla postmodernità, portatrice di movimenti che favoriscono nuovi linguaggi. Questa impressione è giusta se pensiamo alla realtà latino americana, ma nella società attuale mi sembra che non ci sia il silenzio, né si vada verso il silenzio come forma di linguaggio, ma un’ulteriore perdita della comunicazione. Ci sono studi sull’afasia, sulla perdita di comunicazione nella teologia italiana, ma vediamo che la maggior parte dei ragazzi e delle persone non riescono ad andare altre quello che si chiama l’analfabetismo emotivo, o gli sms predeterminati, l’e mail standardizzato, ecc. Ci vorrà molto tempo prima di arrivare ad un recupero della luce della parola. Ho curato di recente gli scritti di un vecchio parroco di campagna che diceva: la parola dei contadini una volta era luce. Brillava perché era particolarmente espressiva.

ANTONIETTA

  1. Come utilizzare il linguaggio delle scritture. Io non so se lo dobbiamo utilizzare o se lo dobbiamo lasciare parlare come tutti i linguaggi. Sono sicura, anche se molti non pensano così nell’ambito teologico e religioso, che non è l’unico linguaggio. Per riconoscere come tale questo linguaggio ho dovuto utilizzare tutti gli strumenti umani, perché le Scritture parlano con le lingue degli esseri umani, con i loro simboli. Certo per noi di tradizione giudeo cristiana si concretizzano in una sintesi scritta. L’unica cosa che evocano le scritture è imparare a leggere e scrivere e ascoltare. Leggere la storia, gli avvenimenti come hanno fatto per comporre queste scritture. Scrivere, per prendere un’iniziativa sulla storia, per non vivere questa storia passivamente e ascoltare perché questa storia continua sempre quando qualcuno “rinasce” e dice qualcosa. Le scritture evocano anche questi atti comunitari di dialogo. Poi purtroppo per noi, anche in ambito cattolico, le scritture sono diventare definitive, chiuse. Addirittura sono tanto chiuse che le possono interpretare solo alcune persone e queste persone le devono interpretare sempre con alcuni criteri. Si tratta di restituire alle Scritture la loro umanità.
  2. Esplorazione. Quando una persona comincia ad esplorare nuovi territori, nuovi soggetti, nuovi incontri, già è un fatto comunitario. Nel momento in cui ricerco, già formo una comunità. Quello che tu dici è il fondamentalismo del gruppo umano o queste forme di “appartenenza” per cui non possiamo mettere un piede fuori; bisogna avere tutti gli stessi criteri, ma questo non è di per sé la comunità. Noi abbiamo un’idea di comunità e di comunione a priori. La comunità sono soggetti insieme ed è più simili a un concetto di diritto giuridico che ad un calore di storia umana con le fatiche i dolori di parto per imparare a vivere insieme. Tutte le volte che una persona si mette in ricerca o in ascolto fa sempre un atto comunitario e forma comunità, superando questa dicotomia che abbiamo sempre se farlo da soli, se farlo insieme. Quando una persona pensa qualcosa già l’ha pensato con degli altri. L’ha pensato perché ha avuto stimoli da altre perone o da altri contesti.
  3. meditazione silenziosa. Dicevi che tu senti più libero. Sarebbe bello sapere quello che dicono gli altri intorno a te. Se si sentono più liberi per il tuo silenzio. E’ bello chiederci se anche gli altri dicono la stessa cosa, se loro si sentono più liberi.
  4. la postmodernità. Io non voglio pensare che è solo latino americana. C’è certamente l’aspetto di tutta questa freschezza, anche di ricerca, utopica, con cambi politici. Nell’epoca postmoderna c’è un problema: la tecnologia ha manipolato il linguaggio. Gli esempi che tu fai sono manipolazioni, per affrettare le cose, per farti credere che sei informato, che sei capace di comunicare in un certo modo. Io sono ancora convinta che il linguaggio tornerà a trasformare la tecnologia e sarà nelle stesse generazioni giovani. Sono certa che le inquietudini umane passano per vari labirinti e cammini, ma hanno sempre voglia di rinascere. Quando dico che la postmodernità ha qualcosa di positivo mi riferisco all’intuizione di voler essere liberi, che probabilmente le istituzioni sia politiche che religiose non capiscono o non vogliono capire. La libertà non è un gioco. Io sono un po’ triste su questi flussi migratori, cercare spazio. Io credo che il nuovo sarà il nuovo volto dell’umanità, con dei processi, anche con dei dolori di parto notevoli. Quello che mi crea fatica, penso all’ambito cattolico, è questa superficialità creata da pregiudizi (noi buoni, gli altri cattivi, noi con le soluzioni ai problemi, gli altri senza soluzioni) che rende la società inerme, molto piatta. Ci accontentiamo di discutere tra noi: quelli buoni sono quelli che dicono: vengano tutti, non c’è nessun problema; quelli cattivi sono quelli che dicono, no! no! Facciamo delle leggi, ecc. Questi atteggiamenti sono anche colpa nostra, colpa di queste sapienze che abbiamo lasciato in mano a persone che hanno fatto un mercato delle ideologie, che si sono arricchite su queste benedette ideologie, cristiane o atee o filosofiche. Bisogna ripensare seriamente. Non basta dare solo delle opinioni. Sono parti storici che ci devono impegnare dando la vita. Non possiamo accontentarci solo di essere buoni o cattivi. Tutti ci rendiamo conto che la dignità non è solo assicurare la sopravvivenza, la dignità è un parto lungo. Penso alla lettera agli Efesini, che non consideriamo un testo politico, anche se io credo che lo sia: “voi non siete più stranieri, né ospiti, ma cittadini”. Quando uno riconosce nell’altro un cittadino è perché ne riconosce la facoltà di dire qualcosa, di fare delle proposte, di dire no alle proposte che tu gli fai. Noi invece discutiamo solo come farli sopravvivere il giorno dopo, e non pensiamo che la storia cambierà se incominciamo a pensare come a poter vivere da cittadini in tutto il mondo. Io non sono boliviana. Ma perché ho dei diritti da cittadina in un Paese così diverso? Noi invece neghiamo la possibilità agli altri di essere cittadini. Certamente per essere cittadini ci sono delle condizioni, ma da ambo le parti. Dovremmo aiutarci a riscoprire queste condizioni e non solo a rimanere su posizioni superficiali che non servono e che procurano gli stessi errori che ha fatto la chiesa nell’ambito della missione. La carità che fanno la chiesa e lo stato. Noi sappiamo come nei Paese in via di sviluppo quanti drammi ha creato la carità, quanti secoli di esclusione. Anche nel Paese dove vivo io sono arrabbiati con certe strutture o mentalità ecclesiali. Quanti drammi, quanti silenzi, quante parole tolte, quante torture, hanno creato le missioni in queli ambito anche se poi il papa nel discorso di apertura ad Aparecida ha detto che no, proprio no. Non è successo niente, l’evangelizzazione era proprio bella. [1] Lui non so dove viveva. Non viveva perché è vecchietto, ma non tanto. Ma come? Dobbiamo aiutarci ad essere più seri, più responsabili eticamente, e non come queste persone che subito si accomodano a destra o sinistra o nel centro. Basta, basta davvero. Queste cose non servono nella storia e subito si impara da questi popoli meno teorici o intellettuali a non accomodarsi nei pregiudizi posizionali che abbiamo. Non esiste una posizione vera. Bisogna ricrearla dentro la storia. Questa è la positività della post modernità. Probabilmente questo terreno così scivoloso ci sbatte in faccia che dobbiamo continuare a camminare in un altro modo. Quello che avevamo raggiunto ad esempio negli anni 80 adesso si rimette in discussione Lo stesso modello di democrazia, io credo che oggi è in discussione. In un mondo così plurale e così globale già non basta la democrazia rappresentativa. E’ davvero un linguaggio insufficiente, perché siamo in un mondo che sempre più sottolinea la necessità del genere, delle identità o della soggettività reale delle persone (giovani, bambini…). Tutti reclamiamo questa partecipazione partendo dalle nostre identità. Poi si dice: un mondo individualista, perché ciascuno reclama il suo. Certo c’è anche una parte di storia individualista però intuizione originale mi sembra forte ed eloquente, un humus propizio per poter ripensare. Dobbiamo mettere in discussione i modelli. Anche i grandi ideali, le grandi certezze che ci hanno garantito di arrivare fino ad oggi (la coscienza democratica ha salvato l’Italia varie volte), adesso mettiamoli in discussione.

Domanda.

Come si può affermare che Cristo è via, verità e vita, senza fare di questa affermazione un linguaggio arrogante che pone divisioni.

Giovanna

Per riscoprire i nuovi linguaggi bisogna rischiare l’errore. Va riscoperto il valore dell’errore. Una tappa per poter proseguire.

Domanda

Vorrei che dicessi qualcosa su ciò che pensi della contemplazione. Ho usato questo termine in chiave positiva (uno spettacolo della natura, etc.). Credo che bisogna saper contemplare anche il negativo, ad esempio la tortura. Non vederli solo con toni di disgusto, dello sdegno, ma saperli vedere in un’ottica religiosa, ma in senso ampio.

Shahrzad

Ringrazio Antonietta che ha oltrepassato il linguaggio interculturale, interreligioso. Veramente un livello altissimo.

Quando parlavi di questa attesa mi sono ricordata un passo della teologia islamica che dice. Aspettare è l’atto più grande della preghiera. E poi anche quando dicevi: non dire tutto, mi sono ricordata della nostra tradizione che dice i nomi di Dio sono 99, ma c’è sempre un nome da scoprire. Mi ritrovo con te in questa visione così positiva nel credere all’essere umano, nella vita che è Dio stesso.

Antonietta

Propongo di ripensare non solo nello specifico della via, della verità, della vita, ma a quando si dice, sempre in questa logica, che Cristo è l’unico salvatore



[1] Il 13 maggio 2007 aprendo ad Aparecida i lavori della V conferenza generale dell’episcopato latino-americano e dei carabi, Benedetto XVI da detto “in effetti, l'annuncio di Gesù e del suo Vangelo non comportò, in nessun momento, un'alienazione delle culture precolombiane, né fu un'imposizione di una cultura straniera”.