lunedì 7 gennaio 2008

19/ L'incontro con le sapienze di altre culture - Mosaico di Pace 14/11/07

L'incontro con le sapienze di altre culture

di Antonietta Potente


Giorgio Piacentini.

Abbiamo la gioia di incontrare ancora una volta Antonietta. Quando passa dall’Italia come una meteora il Cipax l’afferra al volo e la porta qui. In realtà lei ci vuole bene e viene molto volentieri ad accompagnarci nella nostra strada e noi accompagniamo lei, in vari modi, nella sua strada in Bolivia. Solo due parole per dire come il tema di questa sera ha a che fare con il nostro ciclo. L’incontro con le sapienze di altre culture. Antonietta su questo è una maestra. Credo che non ci sia libro o intervento in cui lei non parla della sabiduria, della sapienza di altre culture. Il sottotitolo quest’anno è la storia, la spiritualità, la vita quotidiana dei cristiani d’oriente che sono una compagine crescente in Italia, per via dell’immigrazione. Una serie di confessioni che credo noi conosciamo ben poco. Solo gli specialisti conoscono gli aspetti di questa spiritualità. Come mai Antonietta ci parla dell’insufficienza del linguaggio di fronte al mistero? Noi non l’abbiamo scritto nel manifestino, ma questo è un richiamo alla teologia cosiddetta apofatica, una teologia che non dice, che non può dire, nata nell’ambito dell’Oriente Ortodosso. Antonietta ci parlerà di questa teologia alla sua maniera, forse con un approccio più politico che teorico. Lei farà un intervento di una mezzora: poi ci saranno cinque -dieci minuti in cui potrete parlare fra di voi, per mettere a punto le vostre reazioni su quello che ha detto e passare alle domande.

ANTONIETTA POTENTE

Buona sera a tutti e a tutte. Prima di entrare nel tema vorrei trattare la metodologia dell’intervento. Dato che parleremo di linguaggio, di insufficienza del linguaggio e a volte anche dell’arroganza del linguaggio, utilizzeremo un metodologia articolata, con parole, canzoni e immagini, perché io credo che faccia parte della sapienza della vita di ogni essere umano l’uso di tutti questi linguaggi. Purtroppo noi siamo abituati allo schema che il linguaggio deve essere in un certo modo, dobbiamo esprimerci con certi criteri. La storia che sta cercando di andare avanti in un altro modo ha bisogno di scoprire altri linguaggi. Nell’ambito, non solo della teologia, ma anche della vita più quotidiana, c’è il linguaggio visuale (non mi riferisco in questo caso alla tecnologia, ma alla contemplazione, alla capacità di leggere e guardare la storia in un altro modo), il linguaggio dei suoni; ci sono le immagini storiche, cioè reali, che fanno parte della nostra vita; il linguaggio della poesia, i canti e le canzoni sono sempre più simili ai poemi. Questa sera vi invito a far memoria di tutti questi linguaggi, anche della potenzialità del linguaggio del silenzio, non certo inteso come passività, ma come linguaggio che propone o che critica una certa lettura della realtà. In Italia le parole già non criticano più e c’è bisogno di trovare altri linguaggio.Inserisco questo tema nel cammino che state facendo, nell’ascolto di altre sapienze.

Sento che le mie riflessioni girano intorno a preoccupazioni che vanno molto al di là del dialogo interreligioso ufficiale. Credo che i contributi a questa storia non venga più fatto dalle istituzioni ufficiali, che invece stanno indebolendo il linguaggio. Lo stanno privando di quel potenziale che per l’umanità significava riprendere la parola. Sapete che leggere e scrivere è qualcosa di profondamente importante. Ma son sempre gli stessi quelli che parlano. Il linguaggio si sta indebolendo perché le istituzioni lo usano per farci tacere o per farci dire quello che dicono loro. La necessità di trovare altri linguaggi storici è un impegno etico. La necessitò di riprende in mano le nostre storie non secondo quello che ci dettano gli altri, ma secondo quello che anche noi riusciamo a capire dalla nostre contemplazioni, dalle nostre esperienze. Dobbiamo appropriarci di questi linguaggi in altri ambiti.

Ma parliamo ora di questa strana parola, la teologia apofatica: è un termine che viene dal greco e indica la negazione, il non volere dire tutto su tutto e neanche su Dio. Non dobbiamo lasciare che questi temi siano di proprietà propria solo di alcune categorie di persone o di alcuni spazi.

Io non vi posso parlare della sapienza della chiesa orientale, ma vi posso dire che nel mondo questa sapienza così rispettosa della vita, ma anche così resistente e capace di ricreare la storia, non appartiene solo alla Chiesa orientale, ma appartiene a tutti gli uomini e a tutte le donne che stanno cercando delle strade alternative, e che sono critici di fronte a questo linguaggio che è già diventato così vecchio e così antico.

Se dovessi utilizzare come un sintesi biblica, evangelica, nel mio ambito di riflessione teologica, per descrivere che cosa ci interessa capire delle sapienze, della vita e della storia degli altri, della storia della creazione utilizzerei un versetto del vangelo di Matteo (1^ immagine). E’ una domanda che fa attraverso i suoi discepoli Giovanni Battista, una persona molto inquieta, a Gesù: Sei tu colui che deve venire o dobbiamo aspettare un altro?

Ho scelto una fotografia reale. E’ un’immagine eloquente che ci mette di fronte a questa inquietudine. Noi non vogliamo parlare di un tema, noi vogliamo capire che cosa dobbiamo fare in questa storia per terminare con certi atteggiamenti e con certe barbarie di ideologie, di modi di vita, di mancanza di rispetto per la dignità degli altri, per le intuizioni, per i piccoli o grandi sforzi di questi parti storici che altri fanno. La bambina della foto è profondamente stupita. Credo che questa domanda è una domanda che accompagna l’essere umano: da piccoli a grandi cambiamo la Storia quando impariamo a stupirci, con uno stupore contemplativo, come direbbero anche gli orientali, che nasce perché vediamo ed ascoltiamo. Guardiamo quest’immagine in silenzio ed ascoltiamo un canto che ci ispira questa volontà di capire la storia in un altro modo.

Nell’aria c’è una voglia in me

Qualcosa che non so cos’è.

Mi piace si stare con me

Guardarmi dentro, scoprire che….

Vorrei che facessimo attenzione a questa frase aperta. La domanda gira intorno a qualcuno e a qualcosa. C’è da cercare dove stanno e a chi girano intorno le nostre domande, che possono essere domande religiose, di fede, ma che sono sempre domande profondamente storiche, mistiche, di incontro profondo con la realtà. Sei tu o dobbiamo aspettare? In questi sei tu credo che sta tutta la nostra ricerca. Sei tu popolo differente, sei tu genere differente, sei tu la natura che sei profondamente differente da tutto quello che è costruito attorno a te. Vi invito a dare un nome a questo sei tu, ed anche a dare tutta questa ampiezza, grande respiro al verbo aspettare. Credo che aspettare non sia mai un atteggiamento passivo. Quando parliamo di una ricerca che sa di essere profondamente limitata parliamo di un atteggiamento molto creativo. Aspettare svegli, per vedere se davvero arriva qualcuno. Se posso riconoscere qualcuno. E questa domanda resta profondamente aperta. E’ vero che nella storia della riflessione teologica delle chiese questa caratteristica di non volere dire tutto sul mistero o di essere consapevoli di non potere dire tutto sul mistero ci viene dalla tradizione orientale. La tradizione occidentale ha voluto appropriarsi degli altri, per cui si è voluta appropriare anche di Dio. Quando invochiamo questa insufficienza del linguaggio nell’ambito della metodologia teologica certamente dobbiamo risalire a questa tradizione orientale. Questa sensibilità però non appartiene a una geografia, ma alla storia di donne e uomini che hanno un contatto con la vita reale, che non immaginano la vita, ma la fanno. Dico questo per esperienza e perché nella stessa teologia ad esempio latino-americana questo tipo di sensibilità è sempre stato molto presente. La voglia di non dire tutto su Dio, perché la storia possa riprendere la parola e possa ritrovare il suo linguaggio.

Ripensavo ad un testo molto bello di qualche anno fa di Gustavo Gutierrez, dal titolo: come parlare di Dio, partendo dalla sofferenza dell’innocente. Era un commento al libro di Giobbe. Gustavo stava ancora in Perù ed erano gli anni di una grande sofferenza del continente latinoamericano e caribeño. Nella introduzione citava questo tipo di metodologia e diceva che per fare una teologia della storia dove davvero si potesse riscattare tutta questa passione storica e riconoscere dei soggetti storici come veri teologi e teologhe bisognava accettare questa insufficienza del linguaggio, altrimenti questa sensibilità che a volte abbiamo verso la storia diventa una sensibilità profondamente arrogante. A volte vogliamo aiutare la storia, ma la vogliamo aiutare secondo il nostro linguaggio e togliamo tutto questo stupore: e se ti dovessi aspettare?Sei tu? ma anche chi sei tu?.

Passiamo alla seconda immagine: è per ricordarci l’insufficienza delle parole, che forse è ancora più forte dell’insufficienza del linguaggio. L’immagine ha molta ombra perché l’insufficienza non mette tutto in luce. L’insufficienza delle parole non è solo un criterio teorico. Ci sono delle situazioni storiche che diventano silenziose. Ma parlano con i corpi delle persone, come i corpi si muovono nella realtà, e diventano eloquenti. Noi che osserviamo dobbiamo ammettere che questi silenzi sono i nuovi linguaggi. Nella storia ci sono dei linguaggi silenziosi, ma anche dei linguaggi che vogliamo rendere silenziosi per permettere che parlino ad altre persone. In questo momento storico nell’ambito politico e nell’ambito ecclesiale sono molto poche le realtà dove si vuole lasciare lo spazio perché gli altri ritornino a parlare secondo i loro criteri e secondo i loro linguaggi.

La terza immagine mostra uno schema dell’alfabeto tuaregh.

Una volta avevo letto che i tuareg hanno forme di scrittura ed anche un modo di organizzare il linguaggio molto difficile, perché si basa di più sui suoni delle consonanti, che delle vocali. Per cui puoi entrare da più parti in questo linguaggio (da destra, da sinistra, in diagonale, in verticale) e devi stare profondamente attento. Questo mi aveva affascinato. Pensavo che quello che noi dobbiamo fare nella storia è lasciare tutte le infinite possibilità agli esseri umani, ai popoli, alle culture ed anche alla natura di esprimersi secondo il proprio linguaggio. Quello che dobbiamo chiedere oggi alle nostre politiche, alle nostre cosmovisioni occidentali, ai nostri mondi religiosi (penso nel mondo delle chiese, delle religioni) è lasciare che altri parlino con il loro linguaggio e che scrivano con i caratteri della propria lingua, con questa possibilità di rivelare in un altro modo la storia.

Ho partecipato a questo festival dei popoli, delle culture delle religioni a Terni. Ero in una tavola rotonda sul dialogo interreligioso, per vedere come le religioni partecipano a questo impegno per la libertà e per i diritti civili. Mi era sembrato molto bello che si chiedesse alle religioni di partecipare, di pensare ai diritti civili, ma poi ascoltando e pensando, mi sembrava che abbiamo una tentazione: apparteniamo già a degli schemi e ritorniamo sempre sulle stesse cose. L’unico criterio è quello che già sappiamo e invece in questo momento storico, per cambiare la storia ci dobbiamo muovere con quella domanda iniziale o con questo stupore davanti a questo alfabeto tuareg. A noi sembrano disegnini, ma sono forme di espressione che fanno la storia. Quando qualcuno scrive con questi caratteri, descrive qualcosa della sua storia o pensa il futuro nella storia. I nostri contesti devono rischiare un po’ per rimanere in silenzio e stupiti di fronte a quello che non capiscono e lasciare che quello che non capiscono sia il nuovo linguaggio. Non mi riferisco solo a queste attitudini ed a questi atteggiamenti un po’ superficiali: tutto va bene, accogliamo, non accogliamo e discutiamo su chi ha ragione, se gli stranieri devono starci o non starci, e lo facciamo con molta superficialità. Io parlo di un criterio di giudizio storico, politico, religioso per ripensare il futuro e questo criterio deve essere sapiente, intelligente. Non è l’atteggiamento qualunquista o superficiale di chi dice: ma a me non è mai successo niente e quindi che vengano pure tutti. Oggi è molto importante essere sapienti su queste cose. Ogni volta che torno in Italia quello che mi stupisce è la mancanza di sapienza nella nostra politica. Ci fosse qualcuno che ha un po’ di buonsenso, che voglia ascoltare gli altri o voglia rileggere la storia. Tutti ci muoviamo (e possiamo dirlo anche delle nostre chiese) con quello che già sappiamo. Non c’è questa voglia di trovare anche in questo silenzio la creatività di una storia futura. Probabilmente ci dobbiamo mettere tutti insieme. A Terni eravamo tutti rappresentanti di gruppi religiosi; l’unica che non rappresentavo ero io. Mi colpiva una cosa. Credo che di fronte al sogno storico: di fronte ai diritti civili, alla libertà, ai temi della necessità di considerare le differenze dei generi che abitano questa storia, alle risorse naturali, ecc.ecc. non c’è una religione che possa dire: io scaglio la prima pietra. Tutte le religioni, ancorate al passato, hanno sempre, sempre pensato che loro avevano qualcosa di più da dire agli altri. L’aspetto più bello è ricostruire questa storia con i pezzi di tutti.

La quarta immagine. Nessuno ha il pezzo completo e dobbiamo vedere quale pezzo mi tocca e come lo metto in un puzzle. Si tratta di ricomporre e non di inventare. L’insufficienza del linguaggio e la consapevolezza che noi non possiamo sapere tutto, non abbiamo tutte le certezze sulla verità, ci potrebbero probabilmente aiutare a ricomporre. Qui non è il gioco della complementarietà. Ogni pezzo ha la sua forma, che è enormemente importante. Noi pensiamo che quella forma è l’unica e non riusciamo a guardare il presente e, di conseguenza non guardiano più il futuro. Risolviamo tutto con gli occhi del passato, con quello che già sappiamo, che ci ha accompagnato finora: può essere importantissimo, ma non è più il linguaggio sufficiente in questo momento. Penso alle nostre grandi ideologie o ai nostri grandi ideali o sogni religiosi. Bisogna imparare da questa domanda: sei tu o devo aspettare un altro?

Ci sono situazioni storiche che denunciano tutto questo. Ci sono delle posizioni dell’essere umano e della natura nella storia che denunciano e reclamano un altro atteggiamento. Io non so perché le religioni, la nostra chiesa non riesce a contemplare la realtà in un altro modo. Forse perché siamo troppo sicuri o perché siamo spaventati. Sento che noi siamo fermi e non riusciamo più a leggere le posizioni che questa storia prende e che gridano di per sé anche quando le parole sono insufficienti.

Ancora un’immagine, ma da guardare in silenzio ascoltando un canto latino americano.

E’ una fotografia che testimonia la tortura. Noi sappiamo che nella storia ci sono diversi tipi di tortura. La tortura è l’arroganza del linguaggio, non è solamente il gesto fisico dell’altro. E’ anche l’arroganza del linguaggio e la certezza che l’altro non serve, per cui bisogna eliminarlo, bisogna colpirlo nelle parti più vere della sua identità. La tortura sulle donne, la tortura ideologica su tutto l’essere umano. Sistemi dittatoriali. Torture nate nell’ambito delle religioni: questi pregiudizi e questi sospetti che si sono dati lungo la storia. I pregiudizi nascono sempre da quello che già sappiamo, non nascono mai da quello che non sappiamo.

Foto..

Ci sono torture che l’essere umano provoca nella storia per potersi difendere o per poter attirare tutta l’attenzione su di sé. Dall’esperienza del popolo dove vivo io, ci sono state per secoli torture sulla natura. Tutto il dominio su questi Paesi delle grandi catene multinazionali, sulle nostre risorse naturali sono state torture che si sono prolungate. Le torture sono state anche sul popolo, ma prima sulla natura: comprare la natura per poter poi comprare le ideologie, le speranze, i sogni dei popoli. A parte di ciò che conosciamo di questo mondo così egocentrico, dobbiamo intuire che questa storia continua a sognare con altri progetti di vita e vuole terminare con questi linguaggi arroganti sulle cose, sulle persone e soprattutto con questo togliere la parola. Tutte le torture tolgono la parola. Tutte. Chi resiste alla tortura non vuole fare nomi. Fai di tutto per colpire la sua memoria, come se questa persona restasse sola, invece era profondamente solidale con altra gente. Se avete letto le ultime cronache delle torture in Argentina (sono usciti vari libri, anche tradotti in italiano). Mi colpisce sempre pensare questo che chi tortura toglie la parola e allora l’unica realtà che parla è il corpo, è la posizione di questo corpo.

Foto. Questa è una posizione.

In questa storia noi dobbiamo cominciare a ripensare il nostro futuro guardando le posizioni del nostro corpo, di quello degli altri. Se ci sono posizioni comode o non tanto comode,che possono essere raccontate quando uno si sveglia o se saranno posizioni che ci mandano avanti silenziosamente.

Io credo che c’è ancora un modo nella storia per ricrearci.

Canzone. Non tutto è perduto. Io vengo a offrire il mio cuore. Intendendo per cuore la possibilità di una vita differente.

Il messaggio principale è quello di offrire qualcosa a questa vita. I vari pezzi, con il loro linguaggio differente, con la loro sensibilità differente, sono estremamente importanti. Dobbiamo imparare a metterli insieme nella storia. Io credo che è ancora possibile. Quando guardiamo la drammaticità della storia dobbiamo ammettere che bisogna reinventarla, bisogna ritrovare tutti questi criteri che non possono uscire solo da noi. L’aspetto positivo della postmodernità che tanto critichiamo (e che io non riesco a criticare totalmente,forse per superficialità o non riesco a vederla in tutte le sue componenti) è questo:tutto questo movimento storico della sopravvivenza ha dei linguaggi che suggeriscono delle soluzioni.

Il primo aspetto che dobbiamo imparare a considerare è che dobbiamo imparare a vivere insieme. Questo è l’unico aspetto importante oggi. Aspetti importanti non sono più l’etica della perfezione, l’etica dell’appartenenza a determinati gruppi, ma è importante imparare a vivere insieme a riprendere queste posizioni degne nella nostra storia, con la storia degli altri, uomini e donne, in questa realtà. Per far questo, l’avvicinamento al mistero evoca tutto questo. C’è sempre più sintonia tra il pensare Dio e il pensare la storia. Credo che chi pensa che pensare Dio è solo pensare Dio,non riesce a cavare un ragno dal buco. E’ molto pericoloso, ma soprattutto assurdo pensare a differenze: questo ha fede, questo non ha fede e così via. Io parlo dalla mia prospettiva di fede. Se c’è qualcosa che mi evoca l’alterità, la diversità, il desiderio di unirmi alla vita, che sia la vita umana, del cosmo, è proprio Dio.

E’ questa realtà di cui posso solamente balbettare alcuni nomi. Dare il nome è solamente delineare o scoprire alcune orme dentro la storia. Per cui oggi essere credenti non è contrapporsi ai non credenti. O essere non credenti contrapporsi ai credenti. Credo che questi parti storici sono belli quando ad essi si avvicinano tutte le persone che cercano, che poi cerchino Dio o come riuscire a mangiare in modo degno o cerchino un principio attivo o un pianeta o una parte di un pianeta che può diventare significativo per la vita umana, tutte questo cose sono preziosissime. Quello che invece non serve, e che creano sempre di più queste contrapposizioni, sono le appartenenze troppo certe. Dobbiamo difendere quello che ci ha fatto nascere….Ma quello che ci ha fatto nascere, già ci ha fatto nascere. Adesso dobbiamo “rinascere”. E per rinascere abbiamo bisogno di tutte le particelle storiche, non storiche della natura e del cosmo. Per cui continuo a pensare che questo è profondamente positivo nella nostra storia e bisogna operare. La fede diventa anche questo sogno politico di una realtà differente. Passare ore per capire che cosa vuol dire un altro, come si esprime o i gesti di un altro, credo che è passare delle ore intorno alla sapienza, e quindi intono al mistero.

Adesso condividiamo un po’ di discussione tra di noi.

Piacentini.

In questo nuovo modo di intendere il linguaggio, come possiamo utilizzare il linguaggio delle Scritture? Anche qui ci può essere un modo nuovo di assimilare queste Scritture che scendono su di noi come una pioggia leggera e continuano a fecondare la nostra vita.

Claudio.

Sento che fare una ricerca personale di nuovi linguaggi ed esplorare nuove strade è più facile a livello personale che a livello di gruppo o di comunità. La comunità si dà certe regole che però rappresentano anche un ostacolo.

Cesare.

Io non ho domande, ho solo proposte. (risate) Volevo solo dire che sto vivendo l’esperienza della meditazione silenziosa. Le parole hanno creato solo problemi. Cerchiamo un’altra strada, quella del silenzio. Non è molto che sto cercando di vivere questa esperienza. Ma intravedo in qualche momento, mi sembra che la mia testa (abbandono le parole, abbandono i concetti) sia più libera.

Marco

A proposito di quel giudizio ottimistico che hai dato sulla postmodernità, portatrice di movimenti che favoriscono nuovi linguaggi. Questa impressione è giusta se pensiamo alla realtà latino americana, ma nella società attuale mi sembra che non ci sia il silenzio, né si vada verso il silenzio come forma di linguaggio, ma un’ulteriore perdita della comunicazione. Ci sono studi sull’afasia, sulla perdita di comunicazione nella teologia italiana, ma vediamo che la maggior parte dei ragazzi e delle persone non riescono ad andare altre quello che si chiama l’analfabetismo emotivo, o gli sms predeterminati, l’e mail standardizzato, ecc. Ci vorrà molto tempo prima di arrivare ad un recupero della luce della parola. Ho curato di recente gli scritti di un vecchio parroco di campagna che diceva: la parola dei contadini una volta era luce. Brillava perché era particolarmente espressiva.

ANTONIETTA

  1. Come utilizzare il linguaggio delle scritture. Io non so se lo dobbiamo utilizzare o se lo dobbiamo lasciare parlare come tutti i linguaggi. Sono sicura, anche se molti non pensano così nell’ambito teologico e religioso, che non è l’unico linguaggio. Per riconoscere come tale questo linguaggio ho dovuto utilizzare tutti gli strumenti umani, perché le Scritture parlano con le lingue degli esseri umani, con i loro simboli. Certo per noi di tradizione giudeo cristiana si concretizzano in una sintesi scritta. L’unica cosa che evocano le scritture è imparare a leggere e scrivere e ascoltare. Leggere la storia, gli avvenimenti come hanno fatto per comporre queste scritture. Scrivere, per prendere un’iniziativa sulla storia, per non vivere questa storia passivamente e ascoltare perché questa storia continua sempre quando qualcuno “rinasce” e dice qualcosa. Le scritture evocano anche questi atti comunitari di dialogo. Poi purtroppo per noi, anche in ambito cattolico, le scritture sono diventare definitive, chiuse. Addirittura sono tanto chiuse che le possono interpretare solo alcune persone e queste persone le devono interpretare sempre con alcuni criteri. Si tratta di restituire alle Scritture la loro umanità.
  2. Esplorazione. Quando una persona comincia ad esplorare nuovi territori, nuovi soggetti, nuovi incontri, già è un fatto comunitario. Nel momento in cui ricerco, già formo una comunità. Quello che tu dici è il fondamentalismo del gruppo umano o queste forme di “appartenenza” per cui non possiamo mettere un piede fuori; bisogna avere tutti gli stessi criteri, ma questo non è di per sé la comunità. Noi abbiamo un’idea di comunità e di comunione a priori. La comunità sono soggetti insieme ed è più simili a un concetto di diritto giuridico che ad un calore di storia umana con le fatiche i dolori di parto per imparare a vivere insieme. Tutte le volte che una persona si mette in ricerca o in ascolto fa sempre un atto comunitario e forma comunità, superando questa dicotomia che abbiamo sempre se farlo da soli, se farlo insieme. Quando una persona pensa qualcosa già l’ha pensato con degli altri. L’ha pensato perché ha avuto stimoli da altre perone o da altri contesti.
  3. meditazione silenziosa. Dicevi che tu senti più libero. Sarebbe bello sapere quello che dicono gli altri intorno a te. Se si sentono più liberi per il tuo silenzio. E’ bello chiederci se anche gli altri dicono la stessa cosa, se loro si sentono più liberi.
  4. la postmodernità. Io non voglio pensare che è solo latino americana. C’è certamente l’aspetto di tutta questa freschezza, anche di ricerca, utopica, con cambi politici. Nell’epoca postmoderna c’è un problema: la tecnologia ha manipolato il linguaggio. Gli esempi che tu fai sono manipolazioni, per affrettare le cose, per farti credere che sei informato, che sei capace di comunicare in un certo modo. Io sono ancora convinta che il linguaggio tornerà a trasformare la tecnologia e sarà nelle stesse generazioni giovani. Sono certa che le inquietudini umane passano per vari labirinti e cammini, ma hanno sempre voglia di rinascere. Quando dico che la postmodernità ha qualcosa di positivo mi riferisco all’intuizione di voler essere liberi, che probabilmente le istituzioni sia politiche che religiose non capiscono o non vogliono capire. La libertà non è un gioco. Io sono un po’ triste su questi flussi migratori, cercare spazio. Io credo che il nuovo sarà il nuovo volto dell’umanità, con dei processi, anche con dei dolori di parto notevoli. Quello che mi crea fatica, penso all’ambito cattolico, è questa superficialità creata da pregiudizi (noi buoni, gli altri cattivi, noi con le soluzioni ai problemi, gli altri senza soluzioni) che rende la società inerme, molto piatta. Ci accontentiamo di discutere tra noi: quelli buoni sono quelli che dicono: vengano tutti, non c’è nessun problema; quelli cattivi sono quelli che dicono, no! no! Facciamo delle leggi, ecc. Questi atteggiamenti sono anche colpa nostra, colpa di queste sapienze che abbiamo lasciato in mano a persone che hanno fatto un mercato delle ideologie, che si sono arricchite su queste benedette ideologie, cristiane o atee o filosofiche. Bisogna ripensare seriamente. Non basta dare solo delle opinioni. Sono parti storici che ci devono impegnare dando la vita. Non possiamo accontentarci solo di essere buoni o cattivi. Tutti ci rendiamo conto che la dignità non è solo assicurare la sopravvivenza, la dignità è un parto lungo. Penso alla lettera agli Efesini, che non consideriamo un testo politico, anche se io credo che lo sia: “voi non siete più stranieri, né ospiti, ma cittadini”. Quando uno riconosce nell’altro un cittadino è perché ne riconosce la facoltà di dire qualcosa, di fare delle proposte, di dire no alle proposte che tu gli fai. Noi invece discutiamo solo come farli sopravvivere il giorno dopo, e non pensiamo che la storia cambierà se incominciamo a pensare come a poter vivere da cittadini in tutto il mondo. Io non sono boliviana. Ma perché ho dei diritti da cittadina in un Paese così diverso? Noi invece neghiamo la possibilità agli altri di essere cittadini. Certamente per essere cittadini ci sono delle condizioni, ma da ambo le parti. Dovremmo aiutarci a riscoprire queste condizioni e non solo a rimanere su posizioni superficiali che non servono e che procurano gli stessi errori che ha fatto la chiesa nell’ambito della missione. La carità che fanno la chiesa e lo stato. Noi sappiamo come nei Paese in via di sviluppo quanti drammi ha creato la carità, quanti secoli di esclusione. Anche nel Paese dove vivo io sono arrabbiati con certe strutture o mentalità ecclesiali. Quanti drammi, quanti silenzi, quante parole tolte, quante torture, hanno creato le missioni in queli ambito anche se poi il papa nel discorso di apertura ad Aparecida ha detto che no, proprio no. Non è successo niente, l’evangelizzazione era proprio bella. [1] Lui non so dove viveva. Non viveva perché è vecchietto, ma non tanto. Ma come? Dobbiamo aiutarci ad essere più seri, più responsabili eticamente, e non come queste persone che subito si accomodano a destra o sinistra o nel centro. Basta, basta davvero. Queste cose non servono nella storia e subito si impara da questi popoli meno teorici o intellettuali a non accomodarsi nei pregiudizi posizionali che abbiamo. Non esiste una posizione vera. Bisogna ricrearla dentro la storia. Questa è la positività della post modernità. Probabilmente questo terreno così scivoloso ci sbatte in faccia che dobbiamo continuare a camminare in un altro modo. Quello che avevamo raggiunto ad esempio negli anni 80 adesso si rimette in discussione Lo stesso modello di democrazia, io credo che oggi è in discussione. In un mondo così plurale e così globale già non basta la democrazia rappresentativa. E’ davvero un linguaggio insufficiente, perché siamo in un mondo che sempre più sottolinea la necessità del genere, delle identità o della soggettività reale delle persone (giovani, bambini…). Tutti reclamiamo questa partecipazione partendo dalle nostre identità. Poi si dice: un mondo individualista, perché ciascuno reclama il suo. Certo c’è anche una parte di storia individualista però intuizione originale mi sembra forte ed eloquente, un humus propizio per poter ripensare. Dobbiamo mettere in discussione i modelli. Anche i grandi ideali, le grandi certezze che ci hanno garantito di arrivare fino ad oggi (la coscienza democratica ha salvato l’Italia varie volte), adesso mettiamoli in discussione.

Domanda.

Come si può affermare che Cristo è via, verità e vita, senza fare di questa affermazione un linguaggio arrogante che pone divisioni.

Giovanna

Per riscoprire i nuovi linguaggi bisogna rischiare l’errore. Va riscoperto il valore dell’errore. Una tappa per poter proseguire.

Domanda

Vorrei che dicessi qualcosa su ciò che pensi della contemplazione. Ho usato questo termine in chiave positiva (uno spettacolo della natura, etc.). Credo che bisogna saper contemplare anche il negativo, ad esempio la tortura. Non vederli solo con toni di disgusto, dello sdegno, ma saperli vedere in un’ottica religiosa, ma in senso ampio.

Shahrzad

Ringrazio Antonietta che ha oltrepassato il linguaggio interculturale, interreligioso. Veramente un livello altissimo.

Quando parlavi di questa attesa mi sono ricordata un passo della teologia islamica che dice. Aspettare è l’atto più grande della preghiera. E poi anche quando dicevi: non dire tutto, mi sono ricordata della nostra tradizione che dice i nomi di Dio sono 99, ma c’è sempre un nome da scoprire. Mi ritrovo con te in questa visione così positiva nel credere all’essere umano, nella vita che è Dio stesso.

Antonietta

Propongo di ripensare non solo nello specifico della via, della verità, della vita, ma a quando si dice, sempre in questa logica, che Cristo è l’unico salvatore



[1] Il 13 maggio 2007 aprendo ad Aparecida i lavori della V conferenza generale dell’episcopato latino-americano e dei carabi, Benedetto XVI da detto “in effetti, l'annuncio di Gesù e del suo Vangelo non comportò, in nessun momento, un'alienazione delle culture precolombiane, né fu un'imposizione di una cultura straniera”.